Gabrielle

Un film di Patrice Chéreau. Con Isabelle Huppert, Pascal Greggory, Thierry Hancisse Commedia drammatica, durata 90 min. - Francia 2005. uscita venerdì 9 settembre 2005. MYMONETRO Gabrielle * * - - - valutazione media: 2,38 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

PURISSIMA FICTION TEATRALE Valutazione 3 stelle su cinque

di THEOPHILUS


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venerdì 1 novembre 2013

GABRIELLE
 
Le immagini in bianco e nero che tendono al grigio, presenti nella mente di Hervey, non sono della stessa natura di quel grigio di cui François Mitterrand vede circonfusa la Francia nel film Le promeneur du champ de Mars, la più recente fatica di Robert Guédiguian. Questa tinta, attagliata al protagonista maschile di Gabrielle, è tipica di chi vede la vita senza contrasti, senza punte estreme, di chi, politicamente, è con saldezza ancorato al centro dello schieramento.
Ispirato a Il Ritorno,un racconto di  Joseph Conrad, il film è ambientato nella Parigi dei primi anni del ‘900. Il milieu ritratto, la casa sontuosa in cui vivono Gabrielle e il marito, il loro salotto soprattutto, sembrano riecheggiare – fatte salve le diverse classi sociali - l’ambiente dell’alta aristocrazia nobiliare, finemente miniato con lucido e nostalgico sarcasmo dalla penna di Proust.
Un uomo scende da un treno e si mescola alla folla. Con voce fuori campo egli riferisce di come gli altri potrebbero vederlo: una persona tranquilla e soddisfatta di sé, dallo sguardo sicuro ma non sprezzante, serenamente dedita ad accogliere quello che la vita sa offrirle e che ci sa fare con il denaro. Anche la moglie, Gabrielle, rientra in quel quadro. L’ha vista un giorno per strada e ha capito che era la donna della sua vita.  L’ha sposata e ora vive con lei da dieci anni nella sua grande casa, circondati dai domestici, una camera con due letti gemelli appaiati, pago della sua pura presenza.
Un uomo siffatto tende, però, a confondersi in mezzo alla folla. Mentre egli esprime questi pensieri, sembra guardarsi attorno per cercare una conferma a quelle sue ipotesi, ma nessuno pare accorgersi di lui. Segue poi gli sguardi della moglie all’interno delle settimanali riunioni col bel mondo parigino che si tengono nel loro salotto. Gente raffinata, aristocratica e dedita a speculazioni filosofico/esistenziali che sconfinano in leziose esteriorità, ostentate ma camuffate nel quieto perbenismo. Parole ben calcolate, pronunciate da tutti, e anche dalla moglie, secondo gli stereotipi dell’epoca, quasi lanciate nel vuoto a misurarne gli effetti sui presenti.
Di questo grigio elegante e sonnolento lui si sente pieno padrone, così come dei pensieri e dell’esistenza che è certo appartengano alla moglie: da tutto ciò è protetto.
Ma, non appena qualcosa sfugge al suo controllo, la vita – che a quel punto lo costringe ad uscire dalla sua ipnosi – improvvisamente prende colore ed egli non la riconosce più. Sono colori bui, tenui ma scuri, che vanno a minacciare direttamente le sue certezze.
E la vita si tinge all’improvviso un pomeriggio, quando, rientrando a casa, la servitù l’avvisa che la signora è fuori. Egli non capisce il perché, dato che Gabrielle sapeva del suo rientro. Trova una lettera, lasciata su un trumeau. L’apre con calma, va a cercare gli occhiali e un primo lampo di luce bianca acceca la sua vista, mentre la bottiglia che tiene in mano gli cade e si frantuma in mille pezzi. Da poche righe apprende che Gabrielle se n’è andata con un altro; lei afferma di non riuscire più a vivere con chi non ama e di non capire come ciò sia potuto succedere per tanto tempo.
Ma come? Com’è accaduto? Perché? Chi è? Chi può essere? Come ha potuto Gabrielle rinunciare alla vita che lui le offre, le garantisce? Hervey vaga per le stanze della casa alla ricerca del grigio rassicurante, mentre le domestiche vivono un’altra vita lì accanto, preparano la cena, rassettano, puliscono. Suona il campanello di casa. Non voglio vedere nessuno fino a domani! leggiamo in un fumetto in sovrimpressione. È un grido così lancinante da non poterlo udire o, al contrario, è talmente composto che quasi il regista si vergogna di farcelo ascoltare, lasciando allo spettatore il compito di stabilirlo? Gabrielle, inaspettatamente, è tornata. Era un fardello troppo grande quello che l’aspettava fuori di quella prigione, un baratro troppo profondo da indagare. D’altronde, non le è parso così difficile o complesso il rientro. Sa di non essere niente per lui, se non un bell’oggetto che valorizza la sua casa, come i piccoli gruppi marmorei, quei bianchi putti su cui a volte si sofferma la cinepresa. Se avesse avuto la certezza opposta, cioè di contare qualcosa, non sarebbe più tornata, perché tutto sarebbe stato troppo difficile e doloroso in quel caso.
Ma Gabrielle si sbaglia. Con lei non torna più lo stesso grigiore di prima. Il marito non capisce e non capirà mai più. Il giocattolo si è rotto definitivamente e da qui in avanti i pensieri da lui espressi sono sempre più di sovente affidati ai fumetti, in una possibile identificazione con un fotoromanzo. Perché lei è tornata? Non sa che in questo modo rende le cose ancora più difficili? Come giustificare agli occhi dei domestici l’accaduto, come continuare a fingere all’interno del loro salotto? Il marito protesta, si dispera e potremmo trovarci dentro un racconto d’appendice, se non fosse che quel dolore è vero. Il film va avanti quasi per inerzia a questo punto, in una calibrata contrapposizione: da una parte la sofferenza algida di Gabrielle, che viene manipolata e svestita dalla servitù, quasi violentata dal marito mentre sale le scale per andarsene a dormire e  che infine si assoggetta ad essere, appunto, un puro oggetto, seminuda, stesa sul letto ad invitare il marito a provare. A lei si contrappone un uomo che non è più tale. Costretto a vedere il mondo con occhi nuovi, non è in grado di sopportare il bagliore che lo circonda. Capisce che dovrebbe amare la moglie per poterla avere, ma – non riuscendovi - se ne va . Avendo sempre creduto la sua vita come la condizione perfetta, forse anche la quintessenza dell’amore, seppure inaridito e dimenticato, non ce la fa più a reggere una situazione che lei gli ha dimostrato essere vuota, priva di ogni sentimento. Quel colore che ha invaso la sua vita, l’ha altresì scombussolata e distrutta e lui non riesce più a viverla.
Film molto teatrale, come altri di  Patrice Chéreau (Intimacy, La reine Margot, Ceux qui m’aiment prendront le train), statuario prima che drammatico. La sceneggiatura riveste un’importanza predominante, insieme con la fotografia e una regia che fa un ottimo uso di una cinepresa rigorosamente fissa e che alterna in modo efficace il bianco e nero al colore. Grandi le interpretazioni di Isabelle Huppert e di Pascal Greggory.
 
Enzo Vignoli,
22 settembre 2005.

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