(Attenzione: spoiler)
Con un titolo del genere, questa pellicola cilena ora candidata all'Oscar come miglior film straniero non può non far pensare all'omonimo lavoro di John Cassavetes, un altro ritratto di donna che non si scoraggia di fronte alle avversità. La differenza è che qui gli scogli sono quelli della vita di ogni giorno, ambito narrativo al quale il cineasta di New York ha peraltro dedicato tanti suoi film: se ci si aggiunge il nome di un altro autore bravissimo nel mettere in immagini la poesia delle piccole cose - François Truffaut, di cui sono fan ante marcia – si può ben capire che ‘Gloria’ mi faccia l'effetto di quei dischi magari di secondo piano, cercati con zelo o incontrati per caso, che restano ignorati dai più, ma sono capaci di scaldare il cuore. La Gloria di Lelio è una donna di mezza età con un buon lavoro, ma separata da un pezzo e con i figli ormai adulti, che non rinuncia a vivere: draga i locali per cuori solitari dove, a un bel momento, trova di nuovo l'amore sotto le spoglie di Rodolfo, che la affascina grazie al garbo e alle chiacchiere, ma ben presto si rivela ben diverso dalle apparenze. Tutto comincia a scricchiolare durante una riunione di famiglia con Gabriel, l'ex marito di Gloria, e i ragazzi che si dibattono nei loro problemi: Rodolfo dimostra di non riuscire a staccarsi dal nucleo famigliare che proclama di aver da un anno abbandonato e si ostina a voler tenere il piede in due scarpe. La donna fa di tutto per salvare la relazione – compreso un imbarazzante, in tutti i sensi, soggiorno a Vinha del Mar – poi decide che è meglio darci un taglio e ripartire un'altra volta: accetta il gatto del vicino (l'animale più brutto mai visto sullo schermo), riprende a cantare fra sé e, nella bella scena finale, finisce anche per liberarsi di quella sorta di segno del passato costituito dagli occhialoni che certo non le giovano. Ne esce un ritratto a tutto tondo di una donna forte e volitiva che non si nasconde le miserie della vita, ma cerca sempre di superarle senza piangersi addosso, bensì sforzandosi di spostare più in là i limiti della propria esistenza: per costruire e rendere efficace una simile rappresentazione, ogni particolare è importante, tanto è vero che se c’è un film dove le scene di nudo e di sesso non sono superflue è questo. Detto che la forza di rialzarsi e andare avanti della protagonista ha anche, con ogni probabilità, un sottofondo politico – si vedano la manifestazione a cui Gloria cammina accanto oppure l'accenno alla necessità, per il Cile, di trovare nuove energie e persone per voltare pagina – quello che conta davvero è il fine disegno psicologico della figura principale (a cui Paulina Garcia regala un'interpretazione di grande intensità che le è valso l'Orso d'argento come miglior attrice) e la riuscita sottolineatura di quelle di contorno: gli uomini ci fanno ben misera figura, tra l'irresolutezza mista a pusillanimità di Rodolfo e l'infantilismo di Gabriel, a confronto di donne che si prendono la responsabilità delle proprie azioni, come Ana che accetta di andare in capo al mondo per amore e per necessità. Dopo tutte queste considerazioni, non sorprende che il film si svolga principalmente in interni, mentre attorno Santiago è solo uno sfondo come tanti perché la storia si potrebbe svolgere ovunque: in tale ambientazione, il regista lavora soprattutto di primi piani e inquadrature strette, sottolineando dialoghi scritti con gusto e che mai vanno fuori dalle righe. Dalla combinazione scaturisce il giusto passo con cui la storia viene raccontata, tranquilla come la quotidianità, ma mai banale o noiosa. (Come? Umberto Tozzi? Sì, c’è, state tranquilli. E pure in spagnolo…)
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