Il film più nichilista di Koji Wakamatsu, che già in "Embrione" manifestava l'orrore per la nascita e qui rappresenta la vita come (secondo una visione riproposta, anche se con altro sentimento, da Kitano) approccio alla morte. Il cineasta più originale secondo Nagisa Oshima del cinema giapponese ha caratterizzato la sua produzione con vicende rappresentative di un'umanità emarginata nei processi di caotica espansione e forte immigrazione verso le grandi città che hanno caratterizzato il Giappone moderno. Gli oscuri risentimenti di minoranze alienate, le rabbie asociali sono da Wakamatsu spinte al limite al pari della sua stupefacente ricerca sull'immagine. Regista di un eterno '68 che contesta la mutazione (parola che richiama non a caso la bomba atomica, che ha segnato la psicologia giapponese) antropologica moderna, razionale e industriale in cui quel sole (rosso sangue) della bandiera nipponica non si leva veramente mai, Wakamatsu vede nel sesso e nella violenza il passaggio cupo dell'esistenza umana.
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