Piccolo grande uomo |
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Un film di Arthur Penn.
Con Dustin Hoffman, Faye Dunaway, Martin Balsam, Richard Mulligan, Jeff Corey.
continua»
Titolo originale Little Big Man.
Western,
Ratings: Kids+13,
b/n
durata 150 min.
- USA 1970.
MYMONETRO
Piccolo grande uomo
valutazione media:
3,97
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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La trilogia che riscrive il west di Hollywooddi Gianni LuciniFeedback: 29144 | altri commenti e recensioni di Gianni Lucini |
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martedì 27 settembre 2011 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Nel 1970 “Il piccolo grande uomo” compone con “Soldato blu” di Ralph Nelson e “Un uomo chiamato cavallo” di Elliott Silverstein, una trilogia di pellicole di culto con le quali il cinema opera una vera e propria riscrittura della narrazione filmica della storia degli Stati Uniti. Salvo in rarissime eccezioni come “L’ultimo apache” di Robert Aldrich nel 1955, lo schema hollywoodiano dell’epopea “della frontiera” vedeva infatti i colonizzatori bianchi e le loro truppe nella parte dei buoni inspiegabilmente aggrediti dai cattivi e selvaggi “indiani”. I tre film, usciti quasi in contemporanea, raccolgono e portano su grande schermo una sensazione molto diffusa nel paese, alle prese con la cattiva coscienza della guerra del Vietnam e i grandi movimenti giovanili che sognano la libertà, la pace e il ritorno alla natura. Non è un caso che sempre nello stesso anno, tra i libri più venduti nel paese, ci sia “Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown, che affronta con lo stesso taglio lo stesso argomento. L’odissea dei nativi americani e la riscoperta della loro cultura regalano soprattutto ai giovani che sognano di cambiare il mondo nuove suggestioni ma, soprattutto, un modello di comunità dello spirito in grado di contrapporsi agli stili di vita dei cittadini bianchi occidentali. Della citata trilogia “Il piccolo grande uomo” è quello che, fin dal taglio narrativo, mostra di essere più cosciente del senso e delle motivazioni profonde dell’operazione culturale. Il collegamento tra passato e presente è esplicito nella scelta di affidare a un centoventunenne Jack Crabb il compito di annodare il filo narrativo. Alla sua voce di bianco che ne ha viste di ogni genere e alle sue impressioni è delegato il compito di affrontare la questione del rapporto fra i colonizzatori a stelle e strisce e gli indigeni. Lo fa sfuggendo alla facile trappola del semplice rovesciamento dello schema con i bianchi che diventano cattivi e gli indiani buoni. Più che schierarsi dalla parte di questi ultimi il film compie un’operazione più articolata e complessa puntando soprattutto a mostrarli per quello che sono: un popolo con una cultura diversa da quella dei bianchi, orgogliosamente libera e pacifica, e non dei barbari aggressori di inermi coloni come nella tradizione delle storie di frontiera. Il regista evita anche gli accenni retorici, sempre possibili in questo tipo di narrazione lasciando allo spettatore la possibilità di farsi un’opinione man mano che la storia prende corpo e si sviluppa. La chiave la forniscono i passaggi, spesso repentini, del protagonista dal corrotto, violento e sostanzialmente ignorante mondo dei bianchi al semplice ma tutt’altro che superficiale arcipelago delle antiche culture dei nativi americani.
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