Inju, la bęte dans l'ombre

Un film di Barbet Schroeder. Con Benoît Magimel, Minamoto Lika, Shun Sugata, Maurice Bénichou, Ryo Ishibashi Drammatico, durata 105 min. - Francia 2008. MYMONETRO Inju, la bęte dans l'ombre * * - - - valutazione media: 2,09 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

INJU, LA BĘTE DANS L’OMBRE

di Claudio Esse


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venerdě 29 agosto 2008

L’ultima pellicola di Barbet Schroeder č senza dubbio il primo significativo sgambetto che il Festival propone ai suoi affezionati. Inju, La Bčte Dans L’Ombre (Inju, la bestia dentro l’ombra), accolto nella prestigiosa vetrina dei film in concorso, vorrebbe essere infatti, nelle intenzioni del suo regista, una riflessione sui misteri dell’arte, terreno nobile per definizione, apparendo in realtŕ naif e terribilmente approssimativa. Se il suo autore ha il merito di aver prodotto alcuni dei piů bei successi del cinema francese, diretti da Erich Romher, tra il 1966 e il 1978, non gli si puň non riconoscere una genericitŕ registica che piů di una volta č stata offuscata dalle indubbie qualitŕ delle maestranze artistiche e dei cast di divi che popolano le sue cinefilie. Dalle luci della fotografia di Luciano Tovoli, alle interpretazioni “monstre” di Glenn Close e Jeremy Irons (Il Mistero Von Bulov), Nicholas Cage e David Caruso (Il Bacio Della Morte), Meryl Streep e Liam Neeson (Prima e Dopo), Schroeder č spesso passato indenne dalle sue responsabilitŕ artistiche. Al palato impastato del pubblico veneziano propone il feuilleton stantio e giŕ visto dell’ingenuo Alex Faynard (Benoit Magimel), scrittore di successo che giunto in Giappone per la promozione di un suo romanzo, si ritrova invischiato nelle stesse sordide atmosfere di sesso, violenza e vendetta che garantiscono il successo dei suoi libri, cosě simili allo stile del mitico e osannato Shundei Oe, scrittore misterioso e pazzo, allorchč decide di aiutare la bella geisha Tamao. Come spesso accade la realtŕ č una finzione mascherata dal fumo delle belle intenzioni; e il finale (che non riveliamo) č solo una postilla pietosa di una pellicola che ruba quasi due ore di vita a chi la guarda. Inverosimile, a tratti onirico, per non dire soporifero, a trovargli un senso il film sembrerebbe piuttosto una cervellotica ricognizione nell’ecatombe artistica figlia del logorio del talento e della creativitŕ, posta a fronte dei modelli di riferimento insuperabili. L’enfant terrible del cinema francese Benoit Magimel, solitamente carismatico e bellissimo, č qui imbolsito e troppo borghese per trasmettere quelle scosse epidermiche che invece suscita quando č diretto dal suo nume tutelare Chabrol o da Michael Haneke. Lo stile posticcio e impersonale del regista gronda ricercatezze antiquate in ogni inquadratura prive di una logica artistica e il concetto di tensione č solo un ricordo che non passa indenne dall’atrofia cerebrale degli sceneggiatori che tessono la trama ingarbugliata di questo polpettone. Non basta un’ambientazione nipponica e una spada katana affilata, brandita da un samurai pazzo con la maschera da demone, né una geisha dal fascino lunare, per evocare l’inquietudine della morte, che č figlia della bellezza dell’arte stessa. CLAUDIO SALVATI

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