mauro lanari
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martedì 3 marzo 2015
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avvoltoio o sciacallo.
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Alla sua opera prima, il documentarista Steven Silver riesce meglio rispetto all'analoghe intenzioni del recente "Lo sciacallo" di Dan Gilroy. Storia vera: quattro giovani fotoreporter di guerra immortalarono coi loro scatti i violentissimi scontri ch'insanguinarono le strade del Sud Africa nell'ultimo periodo del potere bianco e la successiva definitiva scomparsa dell'apartheid. Il film racconta di questi giovani e degl'estremi a cui giunsero per catturare quelle immagini. 2 Pulitzer, un morto, un suicida e uno ferito 3 volte. Fondarono il Bang Bang Club convinti di dover testimoniare quanto stava accadendo così d'attrarre l'attenzione internazionale sulla vicenda.
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Alla sua opera prima, il documentarista Steven Silver riesce meglio rispetto all'analoghe intenzioni del recente "Lo sciacallo" di Dan Gilroy. Storia vera: quattro giovani fotoreporter di guerra immortalarono coi loro scatti i violentissimi scontri ch'insanguinarono le strade del Sud Africa nell'ultimo periodo del potere bianco e la successiva definitiva scomparsa dell'apartheid. Il film racconta di questi giovani e degl'estremi a cui giunsero per catturare quelle immagini. 2 Pulitzer, un morto, un suicida e uno ferito 3 volte. Fondarono il Bang Bang Club convinti di dover testimoniare quanto stava accadendo così d'attrarre l'attenzione internazionale sulla vicenda. In realtà amavano il successo, la fama, i soldi e la gloria, erano dei fanatici adrenalinicamente spavaldi, i primi a disinteressarsi degl'eventi che fotografano, per loro la situazione sudafricana era solo un pretesto per rivaleggiare nell'ottenere lo scatto perfetto, non si preoccuparono mai se il loro lavoro fosse destinato a rafforzare o indebolire il governo. Kevin Carter vinse il Pulitzer con la foto d'una bambina, piegata dalla fame e dalla disidratazione, mentre un avvoltoio la guardava da vicino. In una conferenza stampa gli venne chiesto cosa fosse accaduto alla ragazza. Lui non lo sapeva, non aveva fatto alcunché per aiutarla. Avvoltoio che fotografa un avvoltoio, o per l'appunto "sciacallo" delle tragedie altrui. Pure Silver non centra il proprio film sulla guerra civile ch'esplose in quei giorni, ma poiché gli preme descrivere costoro che dispregiativamente furono definiti "the bang bang paparazzi". Le questioni etico-morali legate all'immagini e allo sguardo, in questo caso alle fotografie di denuncia ed informazione, sono espresse in modo lineare e di nuovo quasi documentaristico, la problematica è esposta con un didascalismo che non lascia spazio ad ambiguità interpretative, e stavolta è un bene negando qualunque diversivo. Ruffiana la soundtrack con Radiohead e Lou Reed.
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ashtray_bliss
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lunedì 9 marzo 2015
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gli scatti che pesano sull'anima.
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Tratto da una storia vera e dal omonimo libro, il Bang Bang Club (cosi soprannominato dal titolo di un'articolista sudafricano) racconta in modo vivido e coerente il mondo difficile dei fotoreporter e il terribile peso morale che essi si portano dietro. Ambientato in Sud-Africa e incentrato sul periodo particolarmente turbolento della fine dell'apartheid e del dominio dei bianchi, la pellicola in questione ci porta nel vivo degli scontri tra le due principali forze politiche nere (Inthaka vs Zulu) che si combattevano a vicenda per ottenere il dominio politico e ovviamente l'appoggio popolare.
In un paese disatrato prima dall'apartheid e poi dagli sconvolgimenti tra le bande di guerrillieri locali le strade del Sudafrica si macchiavano di sangue e in questi cruciali e delicati momenti quattro coraggiosi fotoreporter testimoniavano e divulgavano al mondo la precaria situazione locale.
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Tratto da una storia vera e dal omonimo libro, il Bang Bang Club (cosi soprannominato dal titolo di un'articolista sudafricano) racconta in modo vivido e coerente il mondo difficile dei fotoreporter e il terribile peso morale che essi si portano dietro. Ambientato in Sud-Africa e incentrato sul periodo particolarmente turbolento della fine dell'apartheid e del dominio dei bianchi, la pellicola in questione ci porta nel vivo degli scontri tra le due principali forze politiche nere (Inthaka vs Zulu) che si combattevano a vicenda per ottenere il dominio politico e ovviamente l'appoggio popolare.
In un paese disatrato prima dall'apartheid e poi dagli sconvolgimenti tra le bande di guerrillieri locali le strade del Sudafrica si macchiavano di sangue e in questi cruciali e delicati momenti quattro coraggiosi fotoreporter testimoniavano e divulgavano al mondo la precaria situazione locale. Un nucleo di 3 fotoreporter, Ken, Joao e Kevin al quale si aggiungerà presto il freelancer Greg lavorano per un quotidiano nazionale, The Star, al quale vendono rispettivamente i loro scatti e guadagnando cospicue cifre per il difficile lavoro svolto sul campo. Il resto degli scatti non và buttato ma viene ceduto alle principali testate e agenzie giornalistiche del mondo che riproducono gli scatti, a volte veramente violenti e raccapriccianti, di quel che stava svolgendosi in una nazione divisa e piegata dalla guerra civile.
Quello però che maggiormente il film mette in evidenza è il disinteresse e la superficialità nonchè la fredezza che questi quattro fotografi manifestano progressivamente. Davanti al loro obiettivo c'è morte, violenza, disperazione e tragedia umana; ma quello che loro rincorrono e percepiscono è soltanto la foto 'perfetta'; quella tecnicamente impeccabile dove l'esposizione e il rumore sono aggiustati, dove i soggetti -in movimento- vengono comunque ben inquadrati senza troppi 'effetti collaterali esterni'. In particolare Greg e Kevin sviluppano questo distaccamento emotivo che li rende spaventosamente insensibili difronte ai soggetti che immortalano in modo maniacale, proprio come dei veri sciacalli mediatici. Ma le loro foto sono l'arma per ottenere riconoscimenti, premi, fama e gloria. E Greg riesce ad essere il primo a ottenere il tanto ambito Pulitzer con una foto che però rischia di metterlo in seri guai legali. La situazione con gli anni non migliora in Sudafrica e all'alba dei primi anni Novanta il gruppo continua le sue missioni nelle strade della loro patria ma anche dei Paesi vicini, come il Sudan piegato dalla guerra e dalla fame. Proprio in Sudan, Kevin Carter, forse l'unico anello debole del bang-bang club, riesce ad immortalare il suo scatto più famoso e controverso. Uno degli scatti migliori ma anche il più moralmente ambiguo e cruento che egli stesso potesse mai immaginare di creare: quello d'una bambina piegata su se stessa, dalla debolezza e dalla fame, nel deserto e braccata da un avvoltoio in procinto ad attaccarla. La foto diventò un emblema, un simbolo della situazione tragicamente allarmante dell'Africa Subsahariana ma divenne anche il simbolo della polemica. Una foto che valse a Kevin il premio Pulitzer (il secondo vinto da un membro del club) ma che provocò una valanga di critiche e insulti, che espose tutti i dubbi e le perplessità sulla moralità e l'etica del lavoro svolto dai fotoreporter, e che proprio per questo segnò il crollo psicologico dell'autore stesso.
Pochi anni più tardi in Sud-Africa tornò la pace con l'avvento di Nelson Mandela ma la pace non arrivò mai per i quattro fotoreporter che si videro travolti da nuove tragedie personali: Ken rimase ucciso proprio sulle strade dove era abituato a lavore, in uno degli ultimi scontri armati tra bande di guerrillieri, mentre pochi mesi più tardi Kevin si tolse la vita non riuscendo più a recuperare la sua integrità mentale e la sua pace interiore dopo il vero e proprio assalto mediatico subito a causa della foto col condor (e gli abusi di stupefacenti che ne conseguirono).
Joao e Greg furono gli unici superstiti di questo nucleo, e anch'essi asueftti dall'adrenalina e dalla natura estrema del loro lavoro continuarono a diventare testimoni di guerre e immortalarne le tragedie tra Serbia, Kossovo, Iraq e Afghanistan per poi ritirarsi definitivamente nella loro terra natia, con le rispettive famiglie.
In definitiva credo che questo lungometraggio, ingiustamente sottovalutato, e firmato Silver (nome abbastanza sconosciuto per il grande schermo) sia stato capace di mettere in piedi e tracciare uno spaccato realistico e altamente drammatico non solo della situazione umanamente tragica vissuta in Sud-Africa, ma anche e sopratutto di quella alienazione umana che ha caratterizzato i protagonisti.
Paragonabile al più recente Nighcrawler, anche qui il regista mette in evidenza e rincalca in più modi, la sete innarestabile di violenza presa come un mero entairtainment dagli stessi fotoreporter, i quali da un punto in poi non sono in grado di distinguere nemmeno cosa sia umanamente e moralmete giusto e cosa non lo è. Come sia possibile trovarsi su un luogo di guerra e continuare a scattare la violenza che ti circonda per poter poi andare a festeggiare di sera nei pub? Cosa cambia, anche se inconsciamente, nella psiche di queste persone che sembrano essere drogate di guerra e violenza senza saper mai quando fermarsi? Domande mai banali, che si scavano una strada nella mente degli spettatori e ci obbligano a riflettere e guardare oltre le foto, oltre quei giudizzi facili da sentenziare.
Resta il fatto che questi giovani e incoscienti ragazzi hanno cambiato la percezione del mondo sull'Africa con i loro scatti, hanno lasciato un marchio certamente indelebile e non indifferente nell'opinione pubblica e anche se con parecchi anni di ritardo hanno dovuto fare i conti con la loro maturazione psicologica che li ha portati a rivalutare il loro bagaglio morale. Nel caso di Kevin, la troppa pressione e i sensi di colpa per uno scatto involontario lo hanno portato al suicidio.
Un bel prodotto, bello nella sua durezza e amarezza, che non sfrutta i suoi protagonisti monodimensionalmente, ma lascia ampio spazio per capire e decifrare la loro psicologia e comprenderne le azioni. Crudele ma realistico l'affrsco del Sud-Africa post-apartheid, fatto di una dilangante e spaventosa violenza che mieteva sangue e terrore nelle strade delle principali città. Molto buone, convincenti e genuine le interpretazioni offerte dai principali protagonisti; Phillippe, Kitsch e Akerman. Valida, lineare e solida la regia e la sceneggiatura.
Una storia che vale sicuramente la pena di scoprire e magari approffondire.
Consigliato.
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irene
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domenica 12 aprile 2015
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dietro la macchina
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Sono contenta di essere riuscita a vedere questo film e sono rimasta sorpresa di trovarlo in italiano, non so se è mai stato distribuito nelle sale, forse me lo sono semplicemente perso. E' un buon film, ben fatto e che non risparmia niente della durezza che deve mostrare, obbligatoriamente, per farci capire ciò che in quegli anni è successo al Bang Bang Club.
Mi permetto di non essere d'accordo con i due commenti sopra, che si assomigliano in qualche modo. Ho letto il libro con lo stesso titolo, tre o quattro anni fa, e da lì risulta molto più evidente quali e quanti traumi in quel periodo hanno vissuto i quattro fotografi e quale influenza abbiano avuto su di loro.
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Sono contenta di essere riuscita a vedere questo film e sono rimasta sorpresa di trovarlo in italiano, non so se è mai stato distribuito nelle sale, forse me lo sono semplicemente perso. E' un buon film, ben fatto e che non risparmia niente della durezza che deve mostrare, obbligatoriamente, per farci capire ciò che in quegli anni è successo al Bang Bang Club.
Mi permetto di non essere d'accordo con i due commenti sopra, che si assomigliano in qualche modo. Ho letto il libro con lo stesso titolo, tre o quattro anni fa, e da lì risulta molto più evidente quali e quanti traumi in quel periodo hanno vissuto i quattro fotografi e quale influenza abbiano avuto su di loro. Certo, volevano soldi, volevano la fama, ma oltre a quello hanno trovato molto di più. Hanno stretto amicizie per esempio, fra le varie forze in campo; hanno condiviso esperienze, momenti di terrore con loro, pur non dimenticandosi mai la ragione per cui erano lì (e credo che nessun fotografo lo dimentichi mai). Hanno perso amici e compagni d'avventura, hanno vissuto sul filo del rasoio per anni. Uno di loro, forse Greg Marinovich che è la voce narrante del libro, ha dichiarato che probabilmente, se sono riusciti ad andare avanti, è stato perché la macchina fotografica era come uno schermo fra loro e la realtà, qualcosa dietro cui nascondersi, quasi ad illudersi che ciò che stavano riprendendo non era vero. E' vero, Kevin Carter vinse il Pulitzer per quella foto dell'avvoltoio e la bambina e non si seppe mai esattamente ciò che successe dopo: se l'aiutò, se scacciò l'avvoltoio, se semplicemente se ne andò. Fatto sta che Carter si uccise non molto tempo dopo dichiarando, tra l'altro, "di non poter più sopportare la persecuzione dei ricordi degli omicidi e dei cadaveri e del dolore che aveva visto, dei bambini affamati". Salgado, pur senza arrivare a tanto, voleva smettere di fare il fotografo dopo essere tornato dal Darfur, stanco di fotografare la miseria e la morte e l'orrore e le atrocità delle guerre e delle carestie. Viene da invidiarli questi fotoreporter d'assalto, giovani, audaci, ammirati per il loro coraggio, a volte (a volte) baciati dalla ricchezza e dal successo. Tutto questo ha un prezzo parecchio alto e forse ci si pensa troppo di rado.
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