writer58
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domenica 4 novembre 2012
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dimenticare rousseau...
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L'ultimo film di Oliver Stone ("Savages", tradotto con il titolo bruttino "Le belve") è pieno di difetti, ma è un'opera trascinante, che incatena l'attenzione dello spettatore. Iniziamo dai difetti, dagli squilibri. La contrapposizione tra una California descritta come un patinato paradiso in terra e un Messico feroce e primitivo, in balia dei cartelli della droga, è decisamente manichea e abbastanza irritante, soprattutto per chi, come me, conosce bene il Messico. In secondo luogo, tutta la narrazione pecca di inverosimiglianza: due produttori indipendenti non potrebbero avere mai la meglio su organizzazioni strutturate e con forti agganci istituzionali come quelle dei "narcos" messicani. Terzo elemento: il rapporto "a tre" tra i due protagonisti con O.
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L'ultimo film di Oliver Stone ("Savages", tradotto con il titolo bruttino "Le belve") è pieno di difetti, ma è un'opera trascinante, che incatena l'attenzione dello spettatore. Iniziamo dai difetti, dagli squilibri. La contrapposizione tra una California descritta come un patinato paradiso in terra e un Messico feroce e primitivo, in balia dei cartelli della droga, è decisamente manichea e abbastanza irritante, soprattutto per chi, come me, conosce bene il Messico. In secondo luogo, tutta la narrazione pecca di inverosimiglianza: due produttori indipendenti non potrebbero avere mai la meglio su organizzazioni strutturate e con forti agganci istituzionali come quelle dei "narcos" messicani. Terzo elemento: il rapporto "a tre" tra i due protagonisti con O. (che costituisce il motore di tutta la vicenda) appare fortemente improbabile e funzionale a una narrazione che lo rappresenta come una specie di "eden primordiale", un luogo di comunione esente da conflitti. Da ultimo, il doppio finale proposto (entrambe le soluzioni mi sono apparse di maniera e poco efficaci) è un escamotage che non aggiunge nulla alla narrazione, anzi la rende più pasticciata e poco onesta nei confronti dello spettatore.
Tuttavia, nonostante questi limiti pesanti, che incidono sulla carne viva del film, ho trovato l'ultima fatica di Stone avvincente e molto intensa, come se stessi sfogliando un vecchio album di Tex alle prese con banditi messicani o con il suo antagonista Mefisto. La narrazione è a tinte forti (Stone peraltro non ha mei apprezzato le mezze misure o i chiaroscuri, basti pensare a opere come "Natural Born Killers", "JFK" o "Platoon"); la battaglia prometeica tra i giovani di Laguna beach e il cartello della Baja è costellato da invenzioni che mantengono alta la tensione, dall'assalto al convoglio blindato del cartello al rapimento della figlia della boss.
Più discutibile il messaggio che l'opera propone: non esistono "buoni selvaggi" alla Rousseau, se si vuole difendere il proprio spazio e i propri affetti bisogna diventare sanguinari come i tuoi antagonisti, anzi batterli sul piano dell'astuzia e della ferocia. L'estetica della violenza (che "Le Belve" profonde a piene mani, recuperando un approccio che pare mutuato dai film di Tarantino) pare funzionale a questa tesi, condivisa peraltro da parecchie opere di questi ultimi decenni. Peccato che questa tesi, oltre ad essere moralmente ambigua, sia sostanzialmente falsa e scotomizzi i rapporti di forza reali, oltre alla coesistenza conflittuale delle pulsioni aggressive e oblative dentro ciascuno di noi.
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antonio montefalcone
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martedì 30 ottobre 2012
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un’opera d’effetto, riuscita a metà!
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A metà tra il thriller appassionato e il western contemporaneo, l’ultima fatica di Oliver Stone, “Le belve (Savages)”, risulta un coinvolgente e piacevole spettacolo d’intrattenimento, ma nel complesso una pellicola troppo banale e pasticciata.
Accantonato il sequel di “Wall Street”, il regista americano torna al cinema con un film dai toni più “spensierati” e con storie di narcotrafficanti, agenti corrotti, sparatorie, sangue e belle donne.
Seppur non tutto è convincente e perfettamente riuscito, si può comunque apprezzare il suo lato adrenalinico, avvincente e godibile. L’opera poi, formalmente, è ineccepibile: montaggio dinamico e vivace, fotografia accaldata e iperrealista, dialoghi surreali, ritratto di tanti personaggi diversi tra loro (molto sfaccettati, seppur poco credibili), estetica patinata e attenta ai dettagli, cast molto efficace (su tutti John Travolta).
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A metà tra il thriller appassionato e il western contemporaneo, l’ultima fatica di Oliver Stone, “Le belve (Savages)”, risulta un coinvolgente e piacevole spettacolo d’intrattenimento, ma nel complesso una pellicola troppo banale e pasticciata.
Accantonato il sequel di “Wall Street”, il regista americano torna al cinema con un film dai toni più “spensierati” e con storie di narcotrafficanti, agenti corrotti, sparatorie, sangue e belle donne.
Seppur non tutto è convincente e perfettamente riuscito, si può comunque apprezzare il suo lato adrenalinico, avvincente e godibile. L’opera poi, formalmente, è ineccepibile: montaggio dinamico e vivace, fotografia accaldata e iperrealista, dialoghi surreali, ritratto di tanti personaggi diversi tra loro (molto sfaccettati, seppur poco credibili), estetica patinata e attenta ai dettagli, cast molto efficace (su tutti John Travolta).
Tuttavia, i pregi vengono presto offuscati dai rilevanti difetti.
L’improbabile plot, tratto dall’omonimo romanzo di Don Winslow e "manipolato" dallo stesso regista, in sé diverte, ma poteva essere più sintetico e migliorato in alcuni snodi narrativi; così come stonano sia una certa incoerenza di fondo quando retorica e moralismo vanno a cozzare col cinismo del racconto, sia la forzatura pretenziosa di certi argomenti riguardanti l’attualità. Non ha giovato nemmeno l’aver esagerato troppo in ironie, sequenze d’azione e violenza, a tratti mal sposati tra loro, che in più punti hanno fatto scadere l’opera nella farsa più efferata ed insipida. Non serve, inoltre, neanche andare a scomodare (in riferimenti o per qualità raggiunte) il cinema di Leone o di Tarantino per descrivere questo film, perché Stone ricalca semplicemente il suo stile e il suo cinema, tra pregi e difetti: per cambio di registri ed estetiche ricorda infatti, e molto da vicino, “Natural Born Killers” dello stesso.
E' sfacciatamente il cinema delle provocazioni e delle tinte forti, colorito ed enfatico, ridondante e dallo stile concitato, quello dai nobili e sinceri intenti civili. Tutto questo è riproposto abbastanza efficacemente in questa pellicola, soltanto con una grande e non trascurabile differenza: un tempo aveva più smalto, ardore e spessore, e oggi invece appare solo ripetitivo di se stesso, scialbo e per nulla vitale.
Comunque, anche in una pellicola “disimpegnata” e di genere come questa, Stone non tralascia di toccare i suoi abituali temi socio-politici. Aspetto molto apprezzabile. Nel film si può esplicitamente leggere la metafora degli Stati Uniti come un paese che ha perso di vista i veri valori esistenziali. Ciò che purtroppo ne è derivato è soltanto un uso improprio di soldi, potere e avidità che ha reso selvaggia la società e come belve feroci gli stessi uomini...
Lo spettatore è avvisato!
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xander15
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lunedì 29 ottobre 2012
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belve all'uscita dalla sala
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Il film mi ha decisamente deluso, anche se non mi ci ero approssimato con chissà quale aspettativa. La trama in fondo prometteva bene, l'azione sembrava non mancare (ed in effetti c'era), ma ci son cose che non mi sono andate giù per niente. In primis, il doppio finale: senza quello avrei perdonato i vari altri difettucci al film e l'avrei gradito molto di più. A partire dal fatto che, a mio parere, nessuno dei due finali aveva senso, il primo, quello "finto", era inspiegabile. Da aggiungere che la voce fuori campo della ragazza all'inizio copriva quasi la pellicola per poi scomparire per una buona mezz'ora e ricomparire solo verso la fine.
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Il film mi ha decisamente deluso, anche se non mi ci ero approssimato con chissà quale aspettativa. La trama in fondo prometteva bene, l'azione sembrava non mancare (ed in effetti c'era), ma ci son cose che non mi sono andate giù per niente. In primis, il doppio finale: senza quello avrei perdonato i vari altri difettucci al film e l'avrei gradito molto di più. A partire dal fatto che, a mio parere, nessuno dei due finali aveva senso, il primo, quello "finto", era inspiegabile. Da aggiungere che la voce fuori campo della ragazza all'inizio copriva quasi la pellicola per poi scomparire per una buona mezz'ora e ricomparire solo verso la fine. I protagonisti "buoni" risultano troppo, ma decisamente troppo "idealizzati", mentre i protagonisti cattivi risultano caratterizzati piuttosto bene. Un film che risulta essere un miscuglio di buone idee che non trovano il tempo (perché troppe) di esprimersi a fondo: ne viene fuori un minestrone di mezzi concetti e bozze, niente di preciso. Dal punto di vista tecnico Stone è Stone e c'è poco da dire, fotografia e inquadrature quasi perfette.
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carlo vecchiarelli
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sabato 19 gennaio 2013
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il falò delle banalità
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California, Laguna Beachtra surfisti, hippy, marines, trafficanti di marijuana e polizia. Un “Blow” tarantinato dalla regia di O.Stone, interpreti - non protagonisti - del calibro di J.Travolta e B.Del Toro e il divieto ai minori di 14 anni. Ora provate a immaginare che tutti questi elementi vadano mischiati nel peggior modo possibile. Per quanto vi sforziate... non avrete mai una visione altrettanto irritante e stereotipata di quella che offre “Le belve”.
Il triangolo amoroso per niente conturbante, che lega Ophelia, Ben e Chon, è libero e puro come il traffico di marijuana che hanno messo in piedi. Una materia prima troppo superiore agli standard per non poter far gola a chi nel narcotraffico americano detta legge: il cartello messicano, in mano a una spietata quanto improbabile S.
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California, Laguna Beachtra surfisti, hippy, marines, trafficanti di marijuana e polizia. Un “Blow” tarantinato dalla regia di O.Stone, interpreti - non protagonisti - del calibro di J.Travolta e B.Del Toro e il divieto ai minori di 14 anni. Ora provate a immaginare che tutti questi elementi vadano mischiati nel peggior modo possibile. Per quanto vi sforziate... non avrete mai una visione altrettanto irritante e stereotipata di quella che offre “Le belve”.
Il triangolo amoroso per niente conturbante, che lega Ophelia, Ben e Chon, è libero e puro come il traffico di marijuana che hanno messo in piedi. Una materia prima troppo superiore agli standard per non poter far gola a chi nel narcotraffico americano detta legge: il cartello messicano, in mano a una spietata quanto improbabile S.Hayek. Il best seller di Don Winslow è un magma ribollente di personaggi, intrighi e violenza che ben si sposerebbe all’eccesso che aveva scintillato in “Natural born killers” - e questo aveva portato in molti a nutrire aspettative - se non fosse che qui Stone ce lo ripropone davvero in troppe salse, sfocando dal pulp al kitsch a livello scenografico, recitativo, fino ad estemporanee alterazioni di colore, per una totale perdita di coerenza ed equilibrio. Ma come se ciò non bastasse, quello che più salta agli occhi è la banalità con cui viene affrontata la caratterizzazione dei protagonisti, un frullato di stereotipi ai limiti della macchietta, come nei peggiori b-movie anni ‘80. Non è un caso che gli unici a non uscirne con le ossa rotte, pur dovendosi districare in situazioni al limite del grottesco, rimangano Travolta e Del Toro e le loro interpretazioni sopra le righe, in perfetto stile Tarantino. E a chi sbuffa nel sentire quest’ultimo perennemente chiamato in causa, basti la risposta a chi gli chiedeva il motivo per cui, in 20 anni di carriera, avesse girato solo 8 film: “La mia opera è ciò che mi sta più a cuore, è la mia testimonianza artistica. Perciò è fondamentale mantenere un determinato standard, basterebbe un film scadente per degradare il livello medio e penalizzarne altri tre”. Lezioni di stile.
Tornando a Stone, visti i trascorsi, si vorrebbe concludere con una battuta salace, ma purtroppo le delizie non sono ancora terminate. Giunti ormai a sperare in una conclusione risolutrice, tale da interrompere l’agonia per vie indolori, ecco imbatterci in uno dei più grotteschi finali che Hollywood abbia mai ipotizzato di proporre ad uno spettatore sobrio. Svelarlo no, almeno una sorpresa a chi a avrà così tanto ardire da sfiorare il masochismo. Per gli intrepidi, in bocca... alle belve.
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moulinsky
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martedì 12 febbraio 2013
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histoire d’o
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Belve, più corretto sarebbe stato tradurre l’inglese “savages” col bignabaricchiano barbari – tanto lo spunto antropologico si riduce al farsi le canne e a scannare e lo Stato di Natura, sul dizionario Winslow-Stone, è l’elementare livello primordiale dove giocare ai crudeli e ai brutali vivendo come bellissimi vanziniani selvaggi pieni di dané – visto che “Le belve” è l’omonimo pecoreccio film del ’71 con Ira Fürstenberg, Buzzanca e la Borboni e primitivi, più letterale, suonava male agli espertoni nazionali di marketing cinematografaro per le memorie, forse postume forse no, comunque omodiegetiche, della bionda Blake Lively, qui ragazza del clan, sirenetta di Laguna Blubeach, ma sempre assai gossip girl per vezzi, traumi infantili irrisolti, schizzinerie, sessualmente condivisa dal duo dei gelatai di fascia alta Ben&Chon, come li targetizza il sicario messicano Lado (un Benicio del Toro che sembra Brad Pitt col parruccone e i baffi da Pancho Villa), abili produttori di maria dop(e) e non di dozzinale gangia da Wall Mart, ribattezzandoli “caviale” e “niente di personale”, uno reduce killer dall’Aghanistan l’altro freak dal Congo, metallo freddo e legno caldo, terra e spirito, uno scopa l’altro fa l’amore (ahahah), probabilmente anche portatori di fatale attrazione gay oriented come sagacemente intuisce la narcos Elena e al dunque rivelano gli stessi deuteragonisti citando gli immortali Blues Brothers (“Te l’ho mai detto che ti voglio bene?”).
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Belve, più corretto sarebbe stato tradurre l’inglese “savages” col bignabaricchiano barbari – tanto lo spunto antropologico si riduce al farsi le canne e a scannare e lo Stato di Natura, sul dizionario Winslow-Stone, è l’elementare livello primordiale dove giocare ai crudeli e ai brutali vivendo come bellissimi vanziniani selvaggi pieni di dané – visto che “Le belve” è l’omonimo pecoreccio film del ’71 con Ira Fürstenberg, Buzzanca e la Borboni e primitivi, più letterale, suonava male agli espertoni nazionali di marketing cinematografaro per le memorie, forse postume forse no, comunque omodiegetiche, della bionda Blake Lively, qui ragazza del clan, sirenetta di Laguna Blubeach, ma sempre assai gossip girl per vezzi, traumi infantili irrisolti, schizzinerie, sessualmente condivisa dal duo dei gelatai di fascia alta Ben&Chon, come li targetizza il sicario messicano Lado (un Benicio del Toro che sembra Brad Pitt col parruccone e i baffi da Pancho Villa), abili produttori di maria dop(e) e non di dozzinale gangia da Wall Mart, ribattezzandoli “caviale” e “niente di personale”, uno reduce killer dall’Aghanistan l’altro freak dal Congo, metallo freddo e legno caldo, terra e spirito, uno scopa l’altro fa l’amore (ahahah), probabilmente anche portatori di fatale attrazione gay oriented come sagacemente intuisce la narcos Elena e al dunque rivelano gli stessi deuteragonisti citando gli immortali Blues Brothers (“Te l’ho mai detto che ti voglio bene?”). Blake Lively, si diceva, nei panni radical chicspiriani di Ofelia, tra teste splatter alla Enrico Ottavo, qui brevemente detta (histoire d’) O narra la vicenda avvertendo dall’inizio per non togliere tensione che al dunque lei anche parlante sarebbe potuta essere morta o da qualche parte sul fondo dell’Oceano. Difficile da credersi a meno che non trattasi, e non è, di vampiri twilight o walking deads e ancor più da sceneggiare anche accettando il punto di vista di Chon quando nel finale si fa più buddista di Ben (“Entra in quest’ottica: tu sei già morto. Eri morto nel momento in cui sei nato”) e infatti l’epilogo tarantinano alla “tana morti tutti” diviene la pessimistica previsione di O e si travolge subito dopo nel suo doppio più hollywoodiano con l’intervento di Dennis (Travolta che ormai fa bene solo l’autoironica citazione spennacchiata del suo storico ironico Vincent) e se non è proprio felice per tutti ristabilisce almeno un presunto ordine sociale laddove la Dea dei buoni anche se corrotti la vince sempre e la narcos Elena finisce ammanettata in attesa di un nuovo cartello che sproni al Ciak, si ricomincia! Gli ingredienti base, s’è capito, sono i medesimi frullati della serie Breaking Bad, ma il racconto del conte Oliver funziona solo laddove, nell’incipit e nell’happy end con voce fuori campo della presunta salma rediviva (perché non mescolare e agitare il tutto visto che la Hayek, nomen omen, pure nel suo standard di miniatura, togliendosi a metà film la parrucca, suggerirebbe un punto di vista più originale su classico piatto d’argento?), offre alla sgrammaticata macchina da presa di Oliver Stone l’occasione di fare al meglio il suo lavoro, narrando i topoi della sua epica caciarona bipolare e fuori controllo di outsider perfettamente integrato, tra onde palme bikini cilum tavole da surf paradisi veri o artificiali guergasmi e cattisti, mix bianconero colore e virato seppia, e montando sincopato da par suo laddove finisce invece per impastoiarsi, dilungarsi, ripetersi appena l’azione vira al presente e il discorso si fa da indiretto diretto, traduce in regia e dialogo la sua risposta razionale alla follia. “Solo perché vi racconto questa storia non vuol dire che io sia vivo”, cito dal film, potrebbe essere ormai la sua definitiva autodescrizione.
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jacopo b98
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venerdì 18 ottobre 2013
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bel film dal finale cerchiobottista
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In California, a Laguna Beach, vivono Ben (Taylor-Johnson) e Chon (Kitsch). Hanno una casa sul mare e vivono da milionari. Come? Producono la migliore marjuana del mondo. Condividono anche la bellissima O (Lively), la fidanzata di entrambi. Si amano. Sono un trio di innamorati. E quando un potente cartello del narcotraffico messicano gli propone un affare e loro lo rifiutano, si scatena una guerra tra i brutali messicani, capitanati dal cattivissimo Lado (Del Toro), e gli americani che a loro volta diventeranno delle belve. Il nuovo film di Stone ha diviso. E non poteva non dividere d’altra parte. Tratto dal romanzo di Don Winslow, anche sceneggiatore con il regista e Shane Salerno; è un film sulla guerra senza quartiere tra cartelli narcotrafficanti.
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In California, a Laguna Beach, vivono Ben (Taylor-Johnson) e Chon (Kitsch). Hanno una casa sul mare e vivono da milionari. Come? Producono la migliore marjuana del mondo. Condividono anche la bellissima O (Lively), la fidanzata di entrambi. Si amano. Sono un trio di innamorati. E quando un potente cartello del narcotraffico messicano gli propone un affare e loro lo rifiutano, si scatena una guerra tra i brutali messicani, capitanati dal cattivissimo Lado (Del Toro), e gli americani che a loro volta diventeranno delle belve. Il nuovo film di Stone ha diviso. E non poteva non dividere d’altra parte. Tratto dal romanzo di Don Winslow, anche sceneggiatore con il regista e Shane Salerno; è un film sulla guerra senza quartiere tra cartelli narcotrafficanti. E sotto tutto c’è la potente rilettura politica di Stone: non ci sono persone in questo (quel) mondo, solo belve. I personaggi, dal sanguinario Del Toro, alla boss Hayek, fino a Ben e Chon, sono degli animali che si scannano per sopravvivere, per questo l’idea di Ben, che sia possibile rimanere nel bene in un mondo dove tutto è male, ci dice Stone, è un’utopia, un sogno; Cresci un po’ Ben! gli dice Chon. E lo spettatore è costretto a guardare tutti i personaggi anche i più buoni, almeno apparentemente, perdere ogni riferimento politico e morale. E in mezzo al male c’è la neutralità: il personaggio di Dennis (Travolta), che lavora per tutti e in realtà per nessuno se non che per se stesso e, se vogliamo, questo ci dice Stone, questo è il peggio, non schierarsi dalla parte di nessuno. I personaggi sono ben delineati, lo spettacolo, che tiene lo spettatore sulle spine per più di due ore, è assicurato, la storia è abbastanza buona (anche se il triangolo amoroso formato da O e i due ragazzi convince un po’ poco), sul piano formale convince tutto, fotografia, montaggio, attori (tutti bravi con eccezione per la Lively, troppo immatura professionalmente per reggere un ruolo del genere, menzione speciale per Del Toro, da Oscar, Travolta e la Hayek) : questi sono i più grandi pregi del film. Dopodiché, passiamo ai difetti: il doppio finale. La conclusione del film è l’unico grande e palese difetto del film. Perché abbandonarsi, dopo due ore di violenza e guerra, letteralmente, ad un finale consolatorio e posticcio in cui i “buoni” vincono e i cattivi perdono? Insomma Oliver, ci hai messo due ore per dirci che nel tuo film son tutti cattivi e alla fin fine fai vincere i protagonisti? Pura morale commerciale che pensa solo al botteghino e il finale apocalittico di Winslow è sostituito da una vergognosa consolazione fittizia. Che peccato! Insomma, accettiamo questo solo perché per ben due volte la Lively ci ripete che non è detto che alla fine siano sopravvissuti. Per finire: non è affatto brutto Le belve (anzi, ha dei momenti notevolissimi), solo molto, molto contraddittorio. Perché, ricordiamocelo, il finale è sempre la cosa più importante.
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the thin red line
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martedì 25 febbraio 2014
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stone torna (quasi) ai suoi livelli...
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Tre giovani americani vivono beati a Miami facendo soldi a palate con lo spaccio della miglior erba del paese. Vengono cosi addocchiati dal cartello messicano della droga che propone loro un lavoro senza possibilità di risposta negativa. Inizia cosi Le Belve di Oliver Stone che torna dietro la macchina da presa e lo fa senza avvalersi di grandi protagonisti ma sfrutta un contorno di grande qualità (Del Toro, Travolta e Hayek) che alza notevolmente il livello recitativo della pellicola. La trama appare scontata sin dall'inizio ma non annoia mai ed è ricca di azione. Quasi un action trhiller vecchia maniera che tanto manca al cinema americano di oggi e rivive in questo più che apprezzabile film.
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Tre giovani americani vivono beati a Miami facendo soldi a palate con lo spaccio della miglior erba del paese. Vengono cosi addocchiati dal cartello messicano della droga che propone loro un lavoro senza possibilità di risposta negativa. Inizia cosi Le Belve di Oliver Stone che torna dietro la macchina da presa e lo fa senza avvalersi di grandi protagonisti ma sfrutta un contorno di grande qualità (Del Toro, Travolta e Hayek) che alza notevolmente il livello recitativo della pellicola. La trama appare scontata sin dall'inizio ma non annoia mai ed è ricca di azione. Quasi un action trhiller vecchia maniera che tanto manca al cinema americano di oggi e rivive in questo più che apprezzabile film... Non fosse per la bellezza inespressiva e quasi fastidiosa dei tre giovani attori protagonisti forse avrei dato anche mezza stella in più... Sicuramente se stone avesse scelto Bradley Cooper, Bale e Amy Adams forse staremmo parlando di un altro film ma la sceneggiatura regge e l'odore del sangue e del denaro aleggia per tutte le due ore di durata. Solito uomo al posto giusto Benicio del Toro che ormai traffica droga in ogni film . Travolta appare in buona forma e la Hayek è quasi perfetta nel ruolo di signora della droga (chi l'avrebbe mai detto!!!). Nonostante tutto non è un opera da conservare in bella vista ma intrattiene fino alla fine anche grazie al doppio finale shock perla di regia di un autore che non smette di sorprendere. Sostanzialmente un buon film da godersi in compagnia. Azione, sangue e sesso non mancano mai e il triangolo amoroso è una novità che piace. Di sicuro manca qualcosa a livello di sceneggiatura ma nessuno è perfetto: nemmeno Oliver Stone. Consigliato
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fabal
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giovedì 21 settembre 2017
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innatural born savages
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Le migliori qualità di marijuana sono originarie dell’Afghanistan dove Chon, ex militare, ha prelevato alcuni pregiatissimi semi per iniziare una coltivazione in California, insieme all’amico Ben, botanico. I due avviano un proficuo traffico di erba che ben presto frutta non pochi milioni, ma i loro affari attirano l’attenzione di un potentissimo clan di messicani decisi a convincere i due giovani a lavorare per loro. Con le buone o, soprattutto, con le cattive.
Film piuttosto sottotono di Oliver Stone, che vorrebbe coniugare la sregolatezza narrativa di Assassini Nati, con il tratto più realistico di un crudo thriller sul narcotraffico.
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Le migliori qualità di marijuana sono originarie dell’Afghanistan dove Chon, ex militare, ha prelevato alcuni pregiatissimi semi per iniziare una coltivazione in California, insieme all’amico Ben, botanico. I due avviano un proficuo traffico di erba che ben presto frutta non pochi milioni, ma i loro affari attirano l’attenzione di un potentissimo clan di messicani decisi a convincere i due giovani a lavorare per loro. Con le buone o, soprattutto, con le cattive.
Film piuttosto sottotono di Oliver Stone, che vorrebbe coniugare la sregolatezza narrativa di Assassini Nati, con il tratto più realistico di un crudo thriller sul narcotraffico. Ne risulta un film che sembra già esplorato, con un occhio al ben più riuscito Traffic di Soderbergh: somiglianza incrementata dalla ripetuta presenza di Benicio del Toro, cattivissimo e doppiogiochista, a tratti da brividi, il cui personaggio soffre di un eccesso identitario hard-boiled che talvolta sovrasta la credibilità di un trafficante vero. Altro personaggio che sfiora la caricatura è Elena, testa pensante dell’organizzazione, con un look artefatto e un poco plausibile bipolarismo tra la spietata boss e la madre affettuosa, logorata dai sensi di colpa.
A differenza di Natural Born Killers, Stone impiega qualche momento di troppo a mettere a proprio agio lo spettatore in questo realismo anarchico, manicheo, fatto di situazioni estreme e di umanità portata all’eccesso, dalla violenza - sangue, sangue, e urla, fuoco, e ancora sangue - al suo esatto opposto, l'amore - un trio sentimentale dove la bella bionda ama entrambi i giovani senza gelosie, pretendendo che questo exploit trasmetta chissà quale carica erotica-. Senza l’immediatezza dello stile tarantiniano (forse queste belve, i Savages, hanno qualcosa in comune con i Resevoir Dogs di Quentin), né con la l’efficacia caotica dei Coen.
Accettata, comunque, questa doppia natura, Le belve si gode come un thriller di azione intensa, con parabole di efferatezza e capovolgimenti di fronte: i due giovani rispondono colpo su colpo alla potente organizzazione con spargimenti di sangue e persino un controrapimento. Un po’ sacrificato, purtroppo,il personaggio di John Travolta.
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ultimoboyscout
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sabato 15 dicembre 2012
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chi sono le vere belve?
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La storia è ambientata nel sude della California, a Laguna Beach, e vede due diversissimi amici, Ben pacifista fricchettone e Chon ex soldato, dividersi tutto, dal commercio di una specialissima alla fidanzata O, che starebbe per Ophelia (il suo nome) ma anche per orgasmo (la sua specialità). Don Winslow (attenzione a questo nome, si dice sia il nuovo Ellroy!) è un ex detective della Polizia ed è anche l'autore del romanzo da cui è tratto il film di cui è anche sceneggiatore: è un mix di generi, droga si, ma anche e soprattutto noir, thriller, western sullo sfondo di una fortissima love story. Più che gli attori la vera star è Oliver Stone (convintissimo paladino della liberalizzazione delle droghe) che rimanda, a livello estetico e di contenuti, ad "Assassini nati" anche se con saturazioni differenti ed alterazioni di colore.
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La storia è ambientata nel sude della California, a Laguna Beach, e vede due diversissimi amici, Ben pacifista fricchettone e Chon ex soldato, dividersi tutto, dal commercio di una specialissima alla fidanzata O, che starebbe per Ophelia (il suo nome) ma anche per orgasmo (la sua specialità). Don Winslow (attenzione a questo nome, si dice sia il nuovo Ellroy!) è un ex detective della Polizia ed è anche l'autore del romanzo da cui è tratto il film di cui è anche sceneggiatore: è un mix di generi, droga si, ma anche e soprattutto noir, thriller, western sullo sfondo di una fortissima love story. Più che gli attori la vera star è Oliver Stone (convintissimo paladino della liberalizzazione delle droghe) che rimanda, a livello estetico e di contenuti, ad "Assassini nati" anche se con saturazioni differenti ed alterazioni di colore. Ma questo non è il suo solito film, oltre ad una storia fresca e attuale, qui troviamo veramente di tutto, dal pulp all'esotico, dalla violenza estrema all'amore materno, dalla fratellanza all'espiazione, dalla corruzione all'utopia. E i due protagonisti sono Stone in epoche diverse: Chon è il regista che fu veterano in Vietnam, Ben è il regista buddista e pacifista oggi. Il film, dal ritmo serrato e senza tempi morti, è il migliore fra quelli di Stone degli ultimi anni ma non il migliore in senso assoluto, è solido e concreto, ricco di dialoghi ficcanti e di una buonissima scrittura dei personaggi. Si eleva l'interpretazione di DelToro, bravissimo nell'impersonare il sadico Lado mentre non convincono Johnson e Kitsch, forse non del tutto maturi, il voice over di O, qualche scena esteticamente troppo ricercata e il doppio finale che in parte rovina la storia. Il risultato è comunque notevole.
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[+] ciao
(di kondor17)
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elgatoloco
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lunedì 27 febbraio 2017
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adrenalico e lisergico, "savages"
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Adrenalico e "lisergico", "Savages"presenta alcuni elementi "stonesiani"come il doppio(i due amanti della girl, uno duro, l'altro pacifista-budhista, quasi "post-hippie"e la gestione della violenza, comunque esistente, ineliminabile, ma confesso di preferire i ritratti filmici di figure emblematiche, siano esse"The Doors"(Jim Morrison, ovvio, più che altro...)ovvero gli"emblemi"della storia americana, le figure epocali. Sarà che la distensione storico-monografica(mai solo"biografica")e la ricerca di una riflessione sul"reale"intriga maggiormente, se è di Stone ed è fatta con il bagaglio culturale e conoscitivo che porta con sé, oltre alle capacità tecniche indubbie, ma direi che qui, invece, c'è talora qualche"svolazzo"di troppo, qualche esibizione"violenta"extra moenia, per così dire.
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Adrenalico e "lisergico", "Savages"presenta alcuni elementi "stonesiani"come il doppio(i due amanti della girl, uno duro, l'altro pacifista-budhista, quasi "post-hippie"e la gestione della violenza, comunque esistente, ineliminabile, ma confesso di preferire i ritratti filmici di figure emblematiche, siano esse"The Doors"(Jim Morrison, ovvio, più che altro...)ovvero gli"emblemi"della storia americana, le figure epocali. Sarà che la distensione storico-monografica(mai solo"biografica")e la ricerca di una riflessione sul"reale"intriga maggiormente, se è di Stone ed è fatta con il bagaglio culturale e conoscitivo che porta con sé, oltre alle capacità tecniche indubbie, ma direi che qui, invece, c'è talora qualche"svolazzo"di troppo, qualche esibizione"violenta"extra moenia, per così dire... qualche"sforamento", ossia qualche sequenza di troppo, pur se girata(lo dovremo pur dire, diamine, rispetto a tante sciocchezze che si trovano in giro)splendidamente. Chapeau comunque a uncle Oliver, a un mito del cinema, a un regista come ce ne sono pochi. interpreti migliori, certo Benicio Del Toro e la Hayek(qua viva Mexico!), abbastanza bene Travolta, che certo, dai tempi di "Saturday Night Fever"di progressi ne ha fatti, meno bene(bravini, ma ancora acerbi)gli interpreti più giovani, che comunque, come si suol dire"si faranno". IL tema della droga viene affrontato in maniera non moralistica né isterica, dunque"sana", ma a parere di chi scrive anche per qualche sedicenne(il divieto mi pare si rivolga ai 14 enni e basta)qualche ambiguità presente nelle immagini e(meno)nei dialoghi potrebbe indurre a qualche equivoco, almeno quanto agli"spinelli", ai joints... Sequenze tra l'evocativo-sognante e l'atroce della violenza, in coerenza con la rappresentazione di una realtà divisa, sempre presentissima nell'atroce dialettica del nostro tempo ma anhce dei conflitti, invero mai sopiti, tra USA e Mexico. Nonostante le due guerre d'antan , i"muri"promessi e minacciati, le difficoltà sono tutt'altro che sopite, a dimostrazione di tensioni anche etniche, ma soprattutto(direi)tra imperialismo più o meno mascherato e stati com unque oppressi a livello economico. El Gato
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