di Marco Chiani
Basta una lampadina baluginante nel buio o improvvisamente survoltata perché anche il gufo di casa cominci a parlare di ossessioni lynchane. Se il campo di interesse, poi, dovesse mai essere la serialità, l'ombra delle vette gemelle si fa ancora più lunga.
Certo è che nei due minuti e mezzo dell'ipnotico - almeno per chi ha passato da un pezzo i trent'anni - trailer di Stranger Things si possono trovare le traccie di una miriade di supposti padri e padrini. C'è da togliersi il cappello almeno cinque o sei volte, guardate voi stessi. E la partita di Netflix è già vinta, c'è poco da girarci intorno.
Disponibile da oggi su Netflix, questa nuova serie d'impianto sovrannaturale (8 puntate da un'ora ciascuna e sembrano già poche a prescindere) racconta di una scomparsa. Di una sparizione, meglio. Di un bambino che, nello stato dell'Indiana, non si trova più. Potrebbe rientrare nel 99% della casistica presentata dallo sceriffo alla mamma Joyce - una Winona Ryder che, parliamoci chiaro, dà filo da torcere alla maggior parte delle colleghe più giovani. E quindi ritornarsene a casa. Oppure potrebbe rappresentare quell'1% che apre un mondo terribile e amato. Parliamo di un territorio particolarissimo, di un passaggio segreto mostrato dalla narrativa americana - parlare solo di cinema sarebbe sul serio riduttivo - e in voga una trentina d'anni fa, di un punto d'approdo fatto e compiuto che sulla nazione del meltin' pot ha detto molto più di duecento saggi universitari.
Quella che Stranger Things fa intravedere, in breve, è la provincia degli adolescenti che sfidano l'oscuro e si trovano magicamente adulti, una festa per l'occhio nostalgico in cui l'idea fortissima e terribile dell'infanzia di Stephen King - quello degli anni Ottanta, quello dei libri che allora erano peggio dei titoli sfornati nel decennio precedente, ma adesso sembrano (e sono) capolavori - incontra a pranzo i tagli d'inquadratura (ma non solo) di John Carpenter, il cuore e l'anima di sua maestà Steven Spielberg, le avventure di Donner, del primo Columbus, un lettering che avrebbe potuto usare e forse ha usato davvero Tobe Hooper.
Se Stranger Things cerchi di intercettare il pubblico di Super 8 di J.J.Abrams, in cui lo zampino bello forte di Spielberg c'era davvero, è difficile dirlo.
Eppure proprio verso l'anima del lavoro più bello e meno capito del creatore di Lost sembrano voler andare Matt e Ross Duffer, autori, registi, showrunner e produttori esecutivi con Shawn Levy e Dan Cohen: alla ricerca del figlio di Joyce si mescolano adolescenti coraggiosissimi, una bambina piuttosto inquietante, forze governative e, va da sé, sovrannaturali.
Tornando a Lynch e al fantasma di Twin Peaks sia sufficiente pensare che anche il titolo di questa serie, originariamente, doveva essere un toponimo, Montauk, dal nome della località nei pressi di East Hampton, nello stato di New York. Alla fine, sarà sembrato troppo anche agli spudorati fratelli Duffer...
Se le promesse non saranno mantenute, smetteremo di guardare la serie e rivedremo in loop il trailer, composto di immagini viste, riviste, genialmente re-inventate, di una forza appunto quasi aliena.
Ma i buoni presupposti ci sono tutti e Matthew Modine, che interpreta il dott. Martin Brenner - praticamente impossibile non pensare al Peter Coyte di E. T. - L'extra-terrestre perché gli somiglia pure - ha rassicurato gli entusiasti a scatola chiusa di oggi e i fan di dopodomani, facendosi scappare che una nuova stagione è già in lavorazione. Un ritorno graditissimo per tutti quelli che c'erano, un passepartout di prima qualità per chi vorrà avventurarsi nel cunicolo e tornare a sporcarsi gomiti e ginocchia, pulendosi per bene gli occhi.