L'accusa

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Un film di Yvan Attal. Con Charlotte Gainsbourg, Mathieu Kassovitz, Pierre Arditi, Ben Attal.
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Titolo originale Les choses humaines. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 138 min. - Francia 2021. - Movies Inspired uscita giovedì 24 febbraio 2022. MYMONETRO L'accusa * * * - - valutazione media: 3,27 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

"L''accusa" ovvero gli stereotipi di genere dietro Valutazione 3 stelle su cinque

di Alessandro Spata


Feedback: 1173 | altri commenti e recensioni di Alessandro Spata
lunedì 18 aprile 2022

 Un film sicuramente bello e terribile. Bello soprattutto perché tocca allo spettatore ancora una volta finire il film, cioè dargli un significato, un’interpretazione che in quanto tale non può che essere molto soggettiva. L’argomento è indubbiamente minato. Il film è insidioso per la scabrosità del tema trattato e potenzialmente rischia di risultare persino falso agli occhi dello spettatore. Quindi, quando fai un film sulla violenza sessuale lo “sbagli comunque”, temo. Non perché l’opera sia sbagliata di per sé, ma perché il contenuto trattato si presta a letture diversissime e contraddittorie e l’emotività rischia di prendere il sopravvento in ogni momento sulla ragione. L’andazzo è inevitabile specialmente in un film in cui si ha l’ambizione o la pretesa forse di non presentare una posizione netta, né di sostenere una verità assoluta. Tra parentesi dico che anche questo commento sarà “sbagliato” e per lo stesso motivo che fa del film un opera potenzialmente ingannevole. Questo è un film in cui non è tanto la “violenza sessuale” l’argomento in gioco, secondo me, ma si esaminano gli opposti ”seppure “convergenti”, alla fine, stereotipi di genere femminile e maschile con relativi pregiudizi al seguito e con tutte le conseguenze nefaste che questi possono avere nella vita dei singoli individui.
E vorrei soffermarmi per cominciare proprio su una delle scene finali: quella in cui il regista inquadra una porta progressivamente avvicinandosi a questa con la telecamera. Simbolo finale e metafora perfetta dell’impossibilità di distinguere questa volta tra verità e menzogna. O meglio dell’impossibilità di pervenire, in questo caso almeno, ad una verità oggettiva. Cosa è successo veramente dietro quella porta? O meglio cosa si nasconde davvero dietro quella porta? Qui mi è venuta spontanea (perdonatemi la banalità) un’associazione con il film “Non aprite quella porta” mitico horror degli anni ’70 di Tobe Hooper. Anche quello che si racconta nel film di Attal  «Non è solo un film! ACCADE REALMENTE!», nella realtà della NOSTRA “BANALE” QUOTIDIANITA’.
Questo perché in fondo a pensarci bene il film è secondo me una sorta di vero “horror sociologico-politico” come cercherò di argomentare di seguito.
"La sua vita sarà rovinata!" Urla la madre di Alexander. “La vita di chi?”, grida il padre di Mila. Ora se per "vita" non ci limitiamo a pensare soltanto alla carriera accademica di Alexander o alle possibilità future di matrimonio di Mila potremmo dire che forse nel caso specifico l’esperienza vissuta produrrà comunque una ferita che difficilmente si rimarginerà in entrambi i protagonisti. Ci immaginiamo ciascuno di loro perennemente in balia di sentimenti contraddittori che dovrà continuare a convivere con quel che si è subito o cagionato. Quell’esperienza inevitabilmente forgerà il carattere di Mila e Alexander. Lo smarrimento e il rancore della giovane donna e la rabbia e lo sconcerto del “giovane mostro” più che contrapposti sono fatti quasi coincidere qui dal regista. Tuttavia se è vero che il regista vuol fare opera di “equidistanza” è anche vero che si deve constatare guardando il film come ancora negli anni 2000 sia ancora comune nell’ordinamento processuale e non solo francese, l’abitudine di “trasformare la vittima (per quanto ancora “presunta” almeno fino alla fine del processo) in imputata”. Tuttavia, per capire l’esatta misura dei "non-cambiamenti" intercorsi negli ultimi 50 anni in tal senso è sufficiente andarsi a rivedere “Processo per stupro” del 1979 trasmesso a suo tempo con grande e giustificato clamore dalla Rai. Anche nel film “L’Accusa”  si ha l’amara sensazione che in questo tipo di delitto la vittima “non sia innocente” o comunque non può esserlo fino in fondo “a prescindere dal fatto che una abbia subìto violenza oppure no”. Si ha un po’ l’impressione piuttosto amara e surreale che il “pubblico ministero” (non so se si chiami così anche in Francia) stia lì non tanto per comprovare la colpevolezza del reo presunto, ma per dimostrare l’innocenza della vittima che si deve discolpare, quest’ultima, quasi del “fatto naturale di “essere donna” prima di tutto. Come se allo scopo di far trionfare la “verità” in questo tipo di delitti o per il tipo di materia “osé”, per così dire, ivi trattata, il dispositivo giudiziario non possa prescindere dallo sbeffeggiamento impudente e crudele della parte lesa o che tale si presenta nella “dialettica” processuale. La stessa gogna non è riservata al presunto stupratore almeno nel dibattimento pubblico, perché in realtà nel film si nota che il presunto colpevole viene “irriso” nel corso dell’interrogatorio nell’ufficio di polizia quando il fuoco di domande dell’agente mira a voler fare emergere a tutti i costi le “perversioni” dell’imputato reo di abbandonarsi all’autoerotismo, di farsi praticare la fellatio e di “leccare fiche” e  di essere dedito al sesso anale. E non può certo bastare per la par condicio l’esibizione surreale e fumettistica del titolare dell’accusa in dibattimento (l’assurdo tragicomico che investe il realeche si appella ad un romanzo “erotico” di Georges Bataille “Mia madre trovato in casa dell’imputato per adombrare presunte alterazioni della sua personalità o che richiama una novella dal contenuto spinto scritta dallo stesso imputato per provare la sua indole di stupratore nonché per convalidare l’accusa stessa di stupro. La tal cosa mi ha richiamato la vicenda di Woody Allen accusato a suo tempo di molestie sessuali nei confronti di una figlia. Tra le prove esibite a favore della sua colpevolezza venivano citati i film in cui il regista raccontava dell’attrazione del protagonista per le minorenni o per donne comunque molto più giovani a riprova ulteriore delle sue aberrazioni mentali. Insomma, nonostante venga anche citata come testimone una donna con la quale Alexander intratteneva una relazione e che testimonierebbe della violenza verbale o quantomeno della sua abitudine all’utilizzo di un linguaggio esplicito e aggressivo di carattere erotico, il tutto, comunque la mettiamo, sembra presentato come sbilanciato sempre a favore del presunto stupratore.
“Signora presidente! Signore e signori della corte! Signore e signori giurati! Ciò che questa vicenda ci insegna è che chiunque può ritrovarsi un giorno dalla parte sbagliata anche se siamo persone per bene”, declama il difensore di Alexander. Ops! Mi pare quello del difensore dell’imputato l’atteggiamento un tantino “sofistico” di chi per “difendere” il colpevole presunto intende, per esempio, con la solita chiamata generale di correo, cancellare – la differenza tra vittime e carnefici. Come a dire “tutti stupratori, quindi nessuno stupratore?”. Personalmente me la sarei risparmiata questo tipo di orazione.
Perché se è vero che l’intento è quello di non fare del presunto colpevole un capro espiatorio all’interno di una vicenda personale immane e al cospetto di una cultura scellerata tante volte, è altrettanto vero che occorre impedire che elementi confusivi di natura pseudosociologica siano introdotti al solo scopo di equiparare le responsabilità e assolvere dalle colpe e diminuire le responsabilità eventuali del singolo. In sostanza qui l’«empatia» cui fa appello il difensore non vuol dire - comprendere il dolore altrui, “immedesimarsi” per dare origine a dei comportamenti morali -, ma indossare i “panni più sporchi dell’Altro” allo scopo di autoassolversi preventivamente. Allora si ricorre al bieco escamotage di farci sentire quasi complici. Si tratta del più famoso “chi non ha peccato scagli la prima pietra” che è poi una chiamata di correità speciale a pensarci bene. E forse neanche uno stupratore è un vero stupratore. Si può sempre dare la colpa alle situazioni. Pardon! Al contesto. In fondo anche gli stupratori sono delle vittime tante volte. E il confine tra carnefice e vittima e molto sottile tante volte. Qui il bravo avvocato difensore tenta di sfruttare la prontezza di certi esseri umani a “identificarsi” con l’aggressore invece che con la vittima. “L’identificazione con l’aggressore” (Anna Freud o Ferenczi qui non centrano nulla, non completamente, almeno) avviene proprio paradossalmente appellandosi subdolamente a qualità umane generali come la compassione e la tolleranza.
Insomma, questa linea di difesa non mi convince granché perché si rischia paradossalmente di fare dell’imputato non l’autore di un crimine specifico eventualmente, ma il rappresentante di una categoria: quella, ad esempio, degli "stupratori vittime di abusi" come se questo bastasse a giustificarli. Così come l’avvocatessa della “vittima presunta” rischia a sua volta di fare della ragazza la rappresentante emblematica della categoria delle - donne abusate perennemente da una società maschilista patriarcale -.
in sostanza, si fa riferimento a categorie, concetti, astrazioni che rischiano di tramutarsi repentinamente in un’ideologia collettiva che normalmente troverà il suo modo di realizzarsi calpestando le prerogative dei singoli individui e facendoci perdere di vista proprio le persone reali e la loro sofferenza. Si può virtualmente concordare con il difensore dell’imputato quando dice che la giustizia è tale perché è chiamata a giudicare il caso singolo. I tribunali in effetti dovrebbero essere chiamati semplicemente ad intervenire sulle condizioni che permettono solo di “limitare il male. Ma sussiste anche, e forse ancor prima, una condizione di giustizia morale (che non è esattamente compito precipuo delle aule di giustizia) che si occupa del benessere della collettività diversa dalla giustizia legale che si interessa di “limitare il male”. E tuttavia, i due avvocati dell’accusa e della difesa oscillano perennemente tra l’astrazione dell’ideologia e la concretezza del caso singolo, tra la morale collettiva e la legge giudiziaria, ma senza mai dare la sensazione di riuscire ad approdare ad una integrazione efficace dei due livelli. E come sarebbe davvero possibile poi?
I fatti sono le prime vittime, si dice, nei reati a sfondo sessuale (in alcuni almeno perché in altri la violenza è più facilmente dimostrabile). Probabilmente, in questo tipo di delitti più che in altri non può essere la “verità” in gioco. Forse non sapremo mai ciò che è realmente accaduto tra l’uomo e la donna in quel particolare frangente. La verità solo Mila e Alexander la conoscono e anche questo non è propriamente scontato. Ma lo scopo della giustizia non è acclarare la verità, pare. Ma riaffermare una “verità  processuale” cioè - ribadire i principi della legge che ci richiamano a ciò che è lecito e a ciò che non è lecito e punire di conseguenza -. Tuttavia, “temo” che sia innanzitutto fuori dalle aule dei tribunali che dobbiamo cominciare a convincerci e a riaffermare ciò che è ammesso e ciò che non lo è. Da dove si comincia? Dalle scuole, dalla famiglia, dalle assemblee legislative?
Qui da parte del regista c’è verosimilmente l’esigenza di dare alla vicenda descritta non tanto una connotazione di stampo meramente legale individuale, né semplicemente morale, ma più propriamente si vuol conferire alla violenza sessuale anche un’espressione di natura politico-simbolica. Questo per dire che il delitto di “violenza sessuale” si svela ogni volta non soltanto come un efferato delitto contro la persona debole, ma segna anche l’oltraggio ai più basilari principi di democrazia, violata nelle sue fondamenta più sacre: la tutela dei diritti inviolabili della persona.
 “È cresciuto con l’idea che il sesso sia qualcosa di leggero senza conseguenze”, dice il padre di Alexsander. Sia fatta giustizia in nome e “Per tutte quelle donne che si sentono colpevoli per non aver potuto o saputo dire no. Chi non lo dice acconsente? No! Chi non lo dice subisce! Dice l’avvocato di Mila. “Qui non c’è mai un’unica verità ma due percezioni di una medesima scena”, afferma l’avvocato di Alexander che continua: “Voglio convincervi che lui è innocente di fronte alla legge non della morale. Non c’è una verità però dobbiamo trovarne una giudiziaria. Sono solo gli atti del sig Farel che dovete giudicare”. Sono tutte espressioni condivisibili in molte loro parti. Quello su cui potremmo trovare un generale accordo è forse l’idea che dietro questo abuso sessuale (dietro ogni abuso sessuale?) si cela in realtà uno sfacciato “abuso di potere” esercitato su una persona che si trova in una – condizione oggettiva di “inferiorità” tale da impedirle comunque di opporsi alla coartazione -. Tutto giusto, tutto vero.
Comunque la pensiamo, forse è proprio sul concetto di “verità” che intanto dovremmo cominciare a concentrare i nostri sforzi. Purtroppo in questo caso non possiamo confidare in un lampo di insight e nemmeno nel suggerimento di qualche mente illuminata. Allora, potremmo consolarci effettivamente dicendo che non c’è alcuna “verità? O ancora che essa è tutta frantumata in una miriade di opinioni soggettive, le quali, proprio in quanto relative, finiscono per essere considerate comunque valide ed equivalenti in uno sfavillio di relativismo gnoseologico? Di sicuro, il film ci obbliga in qualche modo a vivere in uno stato di perenne disarmonia, di dissonanza cognitiva costante che hanno se non altro il vantaggio di spingerci a porre interrogativi che si spera ci facciano approdare ad un’idea buona, almeno. Tuttavia, se qualcuno sta cercando le “tracce di sangue” o il - mostro con la maschera di pelle umana e la sega elettrica - in mano sta perdendo il suo tempo. Perché qui si vorrebbe discutere soltanto di come cercare di collegare un sospettato a un crimine. Operazione “mostruosamente” complessa e altresì “mostruosa” per le implicazioni psicologiche, sociologiche, culturali e persino antropologiche che vi sono implicate. E qual è l’arma del delitto? La sessualità? Gli atti e le parole che la contraddistinguono? Il suo esercizio improprio o la sua percezione? La sua interpretazione personale, sociale, culturale?  In un tribunale, si potrebbe dire ancora che “le prove non sono consistenti e che l’accusato non si è reso protagonista di casi analoghi”. Ma può bastare? Possiamo cavarcela così?
La “zona grigia” cui impropriamente forse fa riferimento il padre di Alexander per giustificarne le azioni, è in realtà quella in cui il crimine del singolo diviene fatalmente l’emblema contemporaneamente di un triste “fenomeno di costume” non nel senso di un modo di agire esattamente diffuso, ma nell’accezione di modo di pensare, di percepire un fenomeno in modo esteso nella società.  Quella zona intermedia dove legge giudiziaria e legge morale sconfinano reciprocamente e senza soluzione apparente di continuità.
Nel film di Attal i particolari della mostruosità dell’abuso sessuale ci vengono risparmiati quantomeno visivamente e tuttavia essi penetrano subdoli all’interno della storia e delle nostre menti di spettatori. Essi rimangono nel backstage della nostra memoria, inducendoci però a prendere atto che c’è qualcosa che non quadra nella circostanza raccontata.
L’orrore qui non viene soltanto da dentro i personaggi principali protagonisti della vicenda, ma viene anche da fuori, ovvero emana dal contesto generale della cultura di una società o dal contesto più particolare della cellula familiare. Tutto è molto terribilmente umano, tutto è molto spaventosamente vero ed è proprio questa “banalità del male” che ne amplifica la crudeltà e il terrore. Qui la famiglia come istituzione-convenzione borghese con la sua patina di ipocrisia non può non diventare anche lei bersaglio di una critica pungente morale e psicologica insieme. Allora, ciò che si nasconde “dietro quella porta” altro non è che una società imbruttita e tormentata dallo scandalo e dall’orrore di una guerra che continua a consumarsi subdolamente in quest’era moderna tante volte impunemente tra i sessi. - Lo stupro è una logica prettamente di guerra - non più astrazione psicologica o sociologica, ma tremenda concretezza come dimostra ulteriormente la guerra in Ucraina dove i soldati russi non si fanno scrupolo di sfregiare il corpo delle “donne-nemico” a titolo di possesso e di vendetta.
Se è vero che un intero sistema di società esprime tutto se stesso in un aula di tribunale in termini di morale sessuale allora forse il fatto che si susseguano le denunce per “molestie sessuali” e che siano aumentati i processi per stupro dovrebbe essere paradossalmente una buona notizia se è altrettanto vero che “certi comportamenti umani dovrebbero venire alla luce più facilmente e incominciare a fare davvero scandalo soltanto quando sono in declino”, almeno in linea di principio. Ma quanti funesti avvenimenti individuali, quanti atti di violenza sessuale individuale e di gruppo ancora continuerà a sfornare questo sistema prima che il sistema stesso possa approdare a qualcosa di autenticamente nuovo? Prima che si verifichi quella crisi strutturale che produca finalmente il cambiamento reale in un numero sempre più grande di individui?
L’«Accusa» pur con tutti i suoi difetti è un film che assurge a “Horror gender show”, dunque. Un film spiazzante per come riesce a mostrarci come sia sottile la linea di confine tra "civiltà" e barbarie. Un film orribile nella rappresentazione del “fantasma” di una società che dietro le chiacchiere di genitori falsamente indignati e accorati e dietro il volto di un “bravo ragazzo” che “ha compiuto soltanto un miserevole sbaglio”, di fatto si autoassolve anche quando i suoi «rappresentanti maschili» di tutte le età e condizioni sociali abusano impunemente di mogli, fidanzate, compagne e figlie assortite. Forse il messaggio è da un lato che la violenza sulle donne non è un fatto che si può medicalizzare e psichiatrizzare semplicemente in quanto non si può ridurre unicamente a fenomeno individuale. Dall’altro l’avviso è che il picchiatore, il femminicida e lo stupratore non sono il prodotto depravato di ideologie di estrema destra o sinistra o di sacche di povertà. Al contrario, essi con molta probabilità sono anche e soprattutto forse l’ennesima “caricatura della medietà”, o meglio “i degni eredi di una società dove la “ragion di stato e dell’economia”, i canali della pubblicità e anche certi genitori “inculcano più o meno consapevolmente che l’unico parametro di realtà valido che testimonia dell’esistenza in vita di un individuo è la dottrina del successo e del potere”. E a forza di proclamare nel mondo “l’evangelizzazione del più forte” non è poi così bislacca l’ipotesi che gli adepti di questa strana religione laica possano osare imporre prima o poi la loro forza sulle donne, sui bambini, sui diversi, sui vecchi, sui poveri, sui malati.
Questo è un film che per forza di cose non poteva che essere opprimente. Una sensazione di claustrofobia ti prende spontaneamente quando un intero popolo di fatto e la sua ideologia si stipano affannosamente dentro un’aula giudiziaria. Non è un film (e non poteva esserlo) consolatorio. Non so nemmeno se ci sia spazio per una reale speranza. Forse quella porta inquietante ci avvisa che siamo destinati a rimanere per sempre al di qua della sua soglia? O forse sta a significare che dobbiamo tenere sempre la guardia alta perché certa putredine umana rischia di condurci quotidianamente sempre sull’orlo del precipizio morale ed etico?
In sostanza, credo che dietro “quella porta” non ci sia soltanto il prodotto di una violenza privata, ma agisca  soprattutto in questo particolare caso, la “violenza simbolica che si fa legge sociale nelle menti individuali e nella cultura collettiva; quella legge che non necessita né di coercizione materiale né di autorizzazione”. È una sorta di intimazione “gentile” che impone al maschio e alla femmina “maniere permanenti di atteggiare il corpo, posture e modi di acconciarsi e di pensare che finiscono per essere investiti di un significato morale”.
Si tratta di un dominio ambiguo, evanescente (la “zona grigia?”) che si alimenta di brutalità subdola e sensibilità, di prepotenza consapevole e tenerezza. Per questo tante volte facciamo fatica a riconoscere questo tipo di violenza in quanto si nasconde dietro le contraddizioni che professa.
Insomma, quello che voglio dire è che dietro “quella porta” si celerebbe ancora la colpa implicita di una società – androcratica -, sempre imbevuta al tempo stesso di “sentimentalismo misto a norme morali che si rivelano di fatto repressive”, tante volte.
Dietro "quella porta" prospera una società in cui vige una sorta di “manuale inconscio” di “virilità” che per la sua astrattezza può essere accomunato ad una forma di “inconscio collettivo” del pregiudizio (di genere) di “natura biologica e soprattutto di cultura sociale” cui nemmeno le donne sono immuni in diversi casi, che ha finito per sedimentarsi nelle motivazioni alla base dell’educazione cui siamo esposti fin da piccoli (bambini e bambine) ovvero le “aspettative del gruppo familiare e sociale” e che regolano dalla notte dei tempi le relazioni tra uomini e donne, relegandoli a certi ruoli fissi di genere. Tuttavia, non credo nemmeno che il film voglia avallare neanche un barlume di ragione psicologica, culturale o sociale, né tantomeno evolutiva maschile o femminile che possa anche lontanamente spiegare lo stupro, o il deturpamento dei volti con l’acido, o l'azione di ricattare o minacciare qualcuno al fine di soddisfare certa “foia libidica. Però è anche vero, ritengo, che liberarci tutti, maschi e femmine di tutte le età, di certe coercizioni interiori ed esteriori, di certi miti di mascolinità e femminilità non potrebbe che contribuire in meglio a delle più serene e più sane relazioni tra i sessi.
Ripensandoci, voler invocare spiegazioni culturali e sociologiche o appellarsi a forme di “leggi astratte”  o a ragioni evolutive per provare a sviscerare i motivi alla base degli abusi sessuali e della prevaricazione di genere non rischia anche questa di trasformarsi in un’ennesima forma di “abuso” verso le donne? Mi viene il dubbio che l’appello ai culturalismi e ai sociologismi di maniera si verifica soprattutto in tutti quei delitti in cui l’insistenza sulla componente di genere finisce per diventare un alibi buono a distorcere la realtà di certi fatti e a tutto discapito della dignità delle eventuali vittime. Insomma, si ricorre più facilmente all’astrazione sociologica e culturale e psicologica persino quando siamo in preda agli stereotipi e forte è il pregiudizio nutrito nei confronti delle vittime. Oppure tutto questo invocare l’astrazione collettiva non sarà il tentativo individuale di farsene una ragione di tanta violenza? Un modo di accettarla pur sempre rassegnandosi ad essa?
 Mah! Insomma, l’avevo detto che l’avrei sbagliato il commento.

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