Halloween Kills

E dopo mezzo secolo, eccoci di nuovo immersi nella cittadina di Haddonfield, dove un precoce serial-killer, l'iconico Michael Myers, torna a terrorizzare chiunque si presenti dinanzi a lui: dalla ragazzina, magistralmente dipinta originariamente da una giovane Jamie Lee Curtis nell'Halloween di Carpenter, sino ai bambini che lei stessa salvò, ritrovati in questo capitolo; quest'ultimo ricalca in maniera pressoché esplicita proprio il primo capolavoro di Halloween: dai titoli di testa sino alle musiche, sempre composte dal maestro dell'orrore, veterano in questo campo d'azione.

Laurie Strode si ritrova dunque a rivivere lo stesso incubo ancora una volta: se nel precedente capitolo, aveva cercato di dare fuoco al Male personificato, in questo capitolo, scoprendo la verità quasi dopo un'ora di film, ritorna in auge tutto il loro odio, che prende la scala esponenziale dell'ospedale, divenuto simbolo perfetto della società schizofrenica, le cui vittime diventano carnefici: molto toccante e ben rappresentata la scena in cui uno dei malati di mente evasi precedentemente con Michael, e scambiato con lui medesimo dinanzi alla folla irosa nell'ospedale che gli va appresso, si butta dalla finestra, trovando pace nel suicidio; dunque le vittime, assistono alla violenza di Michael, e quasi per mimesis, fanno violenza loro stessi, dando origine ad un ciclo e riciclo per cui sangue richiama sangue.

Il film, registicamente, riprende la grana dell'epoca, e la cifra stilistica degli zoom, che ad esempio negli anni '80 andavano molto di moda: pensiamo ad esempio agli immortali zoom-in sul volto di Jack Torrence, che in preda alla follia iniziava a guardare se stesso attraverso i grandi finestroni dell' Overlook Hotel, così fa pure Michael, come da bambino soleva fare nella stanza della sorella, osservava il proprio riflesso sulla finestra, che in questo capitolo diventa simbolo quasi del doppelganger, dello sdoppiamento della personalità, della propria psiche profondamente disturbata e malata ( altro tema caro a Carpenter, vedi The Ward, il reparto ).

La regia è molto dinamica, pulita e al tempo stesso sporca a tratti: memorabili le sequenze finali dove in controluce, quasi in pieno stile espressionista tedesco, la maschera di Michael venga ritratta in maniera figurativa quasi, distorta dall'angolazione delle inquadrature e dalla messa in abisso dello sfondo peraltro, creando veri e propri dipinti alla Goya.

Gli attori recitano a tratti in maniera troppo caricaturale: in ottima forma invece è Jamie Lee Curtis, che a tratti ha la parvenza di una vera e propria maschera tragica del teatro greco, con la bocca verso il basso e gli occhi sottostanti a sopracciglia, che in maniera esasperata accentuano la drammaticità del volto.

Musiche estremamente valide, pressoché perfette per ogni scena: Carpenter, proprio come il vino, invecchia sempre meglio, il che è tutto dire data la carriera.

La fotografia ricalca, come abbiamo detto, i capostipiti del genere horror del XX secolo, facendo avvertire la grana allo spettatore, e quelle forti luci, rimandanti in parte a Suspiria di Dario Argento, capolavoro degli anni'70 ( anche qua interessante il ruolo della donna nell'horror, che combatte con un'altra donna, con l'assenza pressoché di ruoli maschili ).

Film dunque riuscito, a tratti poco studiato, ma per i più nostalgici, un vero e proprio spettacolo d'intrattenimento.