La coperta, un occhio, uno sguardo che si nasconde dietro un buco. E che da quel buco guarda, come porta, il mondo che davanti a lui gli appare crudele, freddo e meschino, senza scampo.
Antonio è un prigioniero che tramite l’arte ha saputo liberarsi dalla gabbia: della malattia di gozzo e rachitismo; della famiglia di contadini svizzeri in un’infanzia non propriamente felice, frutto di violenza e abusi; degli studi, frammentari e superficiali; delle percosse subite dai coetanei che lo pestavano per il gusto di vederlo andare in crisi; dell’espulsione dalle scuole sino all’approdo tutt’altro che felice in Italia, in un paese di cui non conosceva nemmeno la lingua, una Romagna di lambruschi e felicità negate.
Antonio, Toni è un prigioniero ammalato di vita. Là a Gualtieri, località emiliana di cui è originario il padre putativo - il marito della madre biologica, Bonfiglio Laccabue – soffre gli scossoni dell’eterna solitudine. Nelle cornici di un mondo rurale segnato dal tempo del primo novecento, dai vividi colori sgargianti, pregno di vita, Toni scopre l’arte per curare i suoi affanni esistenziali. Conosce la pittura, inizia a dipingere con uno stile personalissimo, distintivo che lo accompagnerà, grazie all’incontro con Renato Marino Mazzacurati lungo il sentiero di una comunicazione sofferta, oltre il “valico” di quell’erta cima che non voleva superare e da cui si nascondeva. Si svelerà in un mondo spietato e crudele fatto anche di affetto e amicizia, di passione, di placida bellezza (bellissime le scene in motocicletta, il segno di una libertà vagheggiata) e di poetica speranza di un matrimonio. Fino alla paralisi del braccio sinistro che renderà Toni furia cieca, impossibilitato alla creatività fulminante. Fino alla morte cerebrale. Fino alla cesura con quel mondo odiato e amato. Quell’Antonio, Toni è Ligabue uno dei più criptici, semplici e appassionati artisti del nostro novecento ancora oggi studiato e acclamato dai critici.
Giorgio Diritti, regista allievo di Ermanno Olmi e Elio Germano talento dalla grande caratura a livello internazionale (come dimenticare il giovane favoloso, la figura essenziale e sofferta di Leopardi?) restituiscono l’afflato di un film fatto di silenzi e scorci di una Pianura padana, fatta di verdissime sponde e granturco dal colore giallo miele. Una regione segnata dai battiti del tempo del fiume Po che panteisticamente pervade e rende viva l’ispirazione, la furia creativa del grande artista segnato da un tormento interiore che supera traendo, da esso, la forza per ergersi e rappresentare il fuoco che ha dentro. Un fuoco che nasce e si consuma dentro una terra. La terra, con l’articolo determinativo. Quella fatta di animali, cascine, paesi rustici, campi. Di sguardi spietati e dolci, severi e misericordiosi. Di dialetti, quelli veri, che restituiscono il forte legame, quasi d’amore, del regista verso una comunità ritratta come in un quadro di Fattori, fedele nella sua magnifica rudezza.
Volevo nascondermi è un film caratterizzato da immagini di rara grazia e potenza, dalla nitida e accurata fotografia, essenziale come l’interpretazione di Germano, capace di restituirci un Ligabue in stato di grazia, perfettamente a suo agio nei movimenti “sghembi” dell’artista privi di alcuna retorica ma anzi di sano e profondo rispetto. Come quella per il cineasta per antonomasia di questa regione, Fellini, di cui Diritti cela nella pellicola una venata matrice di amarcord, nel dualismo luci/ombre che si specchiano nei volti degli abitanti di un paese avulso dal tempo, lontano e distante, non intaccato ancora dal consumismo o dal progresso che Ligabue ha reso nell’arte suo, vivo, coniugando naif, longevità e bellezza. Un piccolo gioiello. Da vedere.
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