Favolacce

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Un film di Fabio D'Innocenzo, Damiano D'Innocenzo. Con Elio Germano, Tommaso Di Cola, Giulietta Rebeggiani, Gabriel Montesi.
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Titolo originale Favolacce. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 98 min. - Italia 2020. - Vision Distribution uscita lunedì 15 giugno 2020. MYMONETRO Favolacce * * * * - valutazione media: 4,06 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Non è un paese per bimbi Valutazione 4 stelle su cinque

di carlosantoni


Feedback: 5973 | altri commenti e recensioni di carlosantoni
sabato 8 agosto 2020

L’uso del dispregiativo “Favolacce”, al posto di un semplice “Favole”, o magari di un “Favole nere” (ché con questa formula abusata in genere la critica definisce la sostanza del film) potrebbe suonare quasi ironico, ma se così fosse trarrebbe in inganno: deve suonare per quel che è, un dispregiativo assoluto. E semmai la flessione apparentemente ironica del titolo deve mettere in guardia e indurre a pensare a una definizione che allude intenzionalmente al sadismo che si riflette nel/nei racconti narrati.
Che questo sadismo sia consapevole o meno conta poco, quel che conta è che è ampiamente presente nella narrazione; anzi, a ben vedere pesa di più proprio perché perpetrato soprattutto inconsapevolmente, da genitori privi di coscienza, di senso vero della vita e in particolare del rapporto genitoriale.
Favolacce è un film di bambini soli, smarriti, abusati, violati da genitori-orchi, da genitori-lupi. I fratelli D’Innocenzo raccontano fiabe come i fratelli Grimm, e come spesso nelle fiabe di quest’ultimi, i figli sono soli a se stessi, di fronte a un mondo che non aspetta altro che di nutrirsi di loro, annientandoli. La differenza ambientale, e direi antropologica, tra i contesti delle fiabe narrate dalle due coppie di fratelli, è che le fiabe dei Grimm si collocano in una Germania secentesca abbrutita da guerre, devastazioni, estrema indigenza, un contesto nel quale i bambini sono spesso abbandonati dai loro genitori in mezzo al bosco, praticamente dati in pasto ai lupi o alle streghe, perché non più in grado di sfamarli. La fame feroce, l’istinto di sopravvivenza, vincono perfino sull’amore per i propri figli: i Grimm ci mettono di fronte alla realtà di questa disumana bestemmia.
Il contesto delle favolacce dei fratelli D’Innocenzo è ben diverso: qui si parla dell’oggi, dell’abbrutimento morale, e sociale, di una piccola o media borghesia che vive (salvo il caso del ragazzo-padre e di suo figlio) in villette a schiera nella periferia romana di Spinaceto. Qui semmai, la fame è fame di status sociale, di riconoscimento sociale, di “traguardi nella vita”. Si vuole apparire ad ogni costo, e soprattutto si pretende, con feroce ottusità, di conformare i propri figli in età pre-adolescenziale ai nostri marci ideali da “gente arrivata” … Che poi gente arrivata non è, e per questo vive in preda a paranoie e aggressività malamente represse. Illuminante e terribile, tra le altre, la scena in cui la madre (Barbara Chichiarelli) taglia con un rasoio elettrico i bei capelli della sua bambina, che subisce attonita e triste, semplicemente per poterle poi applicare una parrucca nera alla Louise Brooks! Quanta violenza fisica, e soprattutto morale, in questo appropriarsi del corpo della bimba per modellarlo a proprio piacimento, quanto disconoscimento della persona che ha davanti a sé e che è sua figlia! Lo stesso modello di sopraffazione da genitore con le fauci spalancate e le zanne bene in vista, a figlio o figlia totalmente disarmata e soggiacente, si ha quando il ragazzo-padre pretende che il figlio sappia guidare con grinta la sua auto, proprio come sa fare lui, o sia per forza allegro e seducente con la sua amichetta, proprio come lui cerca di esserlo con la mamma della bimba.
Il film ci parla dell’abisso in cui ci fa sprofondare il nostro pensiero unico, fatto di consumismo e conformismo. L’abisso in cui sprofonda una società che non sa più riconoscersi come tale, ma si auto-avverte come composta di bestie selvatiche individualmente in lotta per la sopravvivenza, le une contro le altre, avendo introiettato nella maniera più stolida il peggio del peggio del darwinismo sociale.
La trovata – quella sì davvero fiabesca, e anche un po’ manzoniana – è quella di narrare il film come conseguenza di un manoscritto rinvenuto: il diario di una bambina, che a un certo punto improvvisamente s’interrompe, chissà perché si chiede lo spettatore prima di essere arrivato alla fine, letto dalla voce narrante di Max Tortora… Un’altra trovata a parer mio genialmente fiabesca è quella di aver inserito, ad un certo punto delle storie narrate, la presenza fulminante del professore in via di licenziamento, interpretato in maniera magistrale e inquietante da Lino Musella: è evidentemente la trasposizione dell’orco delle fiabe, o forse addirittura del diavolo, è lui che fornisce ai ragazzini la chiave per una eventuale “soluzione finale”.
Che dire degli attori? In testa a tutti per bravura manco a dirlo Elio Germano, sconcertante nelle scene finali, atroce nel suo smarrimento e dolore, che tuttavia non riescono a fargli superare la sua stolida aridità morale e la sua vigliaccheria di fronte ai doveri più elementari e imprescindibili. Di una bravura lancinante. Ma bravissimi anche Max Malatesta e lo straordinario Gabriel Montesi, il ragazzo-padre, che vive in quella casetta raffazzonata e che per totale immaturità immagina e pretende che suo figlio dodicenne sia un macho come lui, un suo amico di bisbocce, uno sciupafemmine, mentre nel letamaio dell’interno in cui vive, si comporta più come un redneck del Tennessee o della Georgia che come un coatto della periferia romana: sempre pizze schifose mangiate a letto, crocchette di chissà cosa da sgranocchiare nella laida penombra, birre da tre soldi, automobile scalcinata…
Bravi anche i bambini, tra i quali, secondo me, rifulge la tredicenne Giulietta Rebeggiani.
Due parole sulla fotografia, notevole: soprattutto i primissimi piani sui volti dei protagonisti, spesso deformati da qualcosa che assomiglia a un ringhio belluino, le riprese notturne, le riprese dal basso, alla Orson Welles, dei bambini che camminano…
Anche la colonna sonora è speciale, e inusuale,fatta di piccoli suoni pizzicati, graffiati, appena accennati, aderente al contesto narrativo per l’inquietudine sottile che crea, cui si accompagnano i versi tristi della canzone “Bisogna morire”.
Da non perdere. Da digerire.

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