La Dea Fortuna

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TRA “REALISMO” E “SIMBOLISMO”: UN FILM CHE FA BENE ALL’ANIMA

di CHRISTIAN LIGUORI


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mercoledì 29 gennaio 2020

L’inizio è la fine e la fine è l’inizio. Una sequenza nei primi minuti dal sapore macabro e spettrale, consequenziale anche alla misteriosa presenza di un individuo ignoto che inquadra, da dietro una macchina da presa, stanze oscure di una villa buia che sembra infestata da fantasmi, ma le urla finali della stessa sequenza da thriller sono reali, di umani. E s’interrompe poi improvvisamente lasciando spazio, per contrasto, all’esordio di una nuova e seconda sequenza completamente differente, gioiosa, allegra, festiva, come se si stesse nella medesima dimora, ma è evidente che è solo illusione, e quella di prima apparteneva a un passato evocato, raggelante, vero che infatti infine ritorna, e così verso la conclusione un’analoga sequenza, che rimanda a quella, ad un passato che, come spesso in effetti si verifica, si ripete tragicamente. Soltanto da questa premessa si potrebbe già cogliere la qualità estetica di un film come “La dea fortuna”, la commedia con la “C” maiuscola uscita lo scorso Dicembre 2019 nelle sale italiane e diretta da Ferzan Ozpetek, regista ormai consolidato e maturo. Ma c’è di più: coerentemente ai continui colpi di scena che sviano di continuo lo spettatore creandogli spasmi emotivi interiori di notevole portata, tali da “condannarlo” magicamente al costante pensiero di quel che ha potuto vedere in questo calibratissimo lavoro persino il giorno seguente, il regista qui sorprende pure se stesso, superandosi e superando l’ultimo suo prodotto artistico, “Napoli Velata”.

Sebbene uno dei due attori protagonisti, or dunque non Stefano Accorsi, ma Edoardo Leo, con la sua vis e il suo viso comico non riesca ad essere efficacemente credibile nei momenti drammatici ben presenti durante la visione, il film è un inno alla spontaneità e alla naturalezza come forse non si vedeva ormai nel panorama della commedia italiana da diversi anni.

A tal proposito, la seconda sequenza significativamente è girata con un cellulare: riprende il personaggio interpretato da Accorsi, calzante perfettamente nel ruolo dell’intellettuale freddo e frustrato, aggiudicandosi la palma vincente di migliore attore della pellicola, sempre però dopo i due bambini che possono diventare senz’altro una futura scommessa nel nostro panorama filmico nazionale, sempre più arido.

Vengono fuori le parole più banali perché adatte ad un momento conviviale come possa essere una festa, un ricevimento tra amici. Il bello, però, coerentemente con le continue sorprese che qui il regista ci regala è che spesso durante la visione siamo catapultati in immagini e riprese che richiamano volutamente quella stessa fatta col telefonino, con continui zoom e passaggi da un fuoco ad un altro. È o non è questa una splendida esaltazione anche visiva della naturale spontaneità la quale è “sceneggiata” durante tutto il film?

D’altra parte, la vicenda è ispirata ad una storia vera, e più reale di così non poteva restituircela un professionista della macchina da presa, nonché un maestro dell’equilibrata concertazione di tutti gli strumenti che consentono di produrre quella sinfonia che si chiama cinema. E stando alla prima affermazione, è per questo che la commedia non annoia mai, mentre tenendo conto della seconda è possibile dire che Ozpetek sia in grado di comporre un puzzle, a cominciare da una storia i cui tasselli si rivelano piano piano, per poi smontarsi e rimontarsi da sé fino a raggiungere quell’armonia che è magicamente racchiusa nella sequenza finale al mare, un quadretto di genuina poesia esistenziale, che dimostra quanto l’affetto e l’amore, se davvero prevalessero un po’ più spesso in ognuno di noi potrebbero renderci persone migliori e consentire l’emersione (altamente significativa la scelta di girarla in acqua) di quel bambino che un tempo eravamo e che ancora siamo, dentro, nel profondo. Ma l’armonia non è solo derivante da una sceneggiatura quasi perfetta, è anche visiva di certe scene che sono un contributo alla realizzazione di un collage che è opera di spontanea vitalità e riflessiva psico-presa di coscienza, tutto materia d’indagine di un’esistenza che, difatti, non è mai stata facile. Eppure, due anime innocenti, due piccole creature mature forti e indifese sembrano appartenere da sempre al destino dei due protagonisti, una coppia gay in crisi, che ritroverà la forza di ricominciare e amare grazie all’affetto, grazie all’amicizia, grazie a due bambini, e in una sola parola che le racchiude tutte e tre: grazie all’amore! Diverse scene nel corso del film, di giochi spensierati, ore di studio alternative e litigi devastanti dimostrano come quei due bambini possano essere ricondotti a simboleggiare una sorta di proiezione all’esterno della realtà interiore dei due protagonisti (che è anche la nostra, perché siamo tutti bambini), che solo quando verrà da loro con costrizione del destino (la dea Fortuna è anche questo) pienamente ascoltata, saranno capaci di cambiare quell’esterna, pur limitandosi ad accettare l’inevitabile e l’irreversibile processo “vita-morte” racchiuso nella perdita del loro “caro Cupido” che li ha fatti incontrare, la forza devastante dell’amore dalle mille e labili sfaccettature, che il Caso, la Fortuna, appunto, da dea vuole che siano così. Stiamo parlando della madre dei due bambini.

L’amore nelle sue mille componenti vince nel film, specialmente attraverso una moderna sublimazione del “Fanciullino” del poeta Pascoli, e pertanto, la sfera erotica della stessa forza universale resta giustamente in superficie, solo citata, nominata, riferita, perché nella sua genuina naturalezza “La dea fortuna” è una commedia pura. Perché, in fondo, tale è il nostro destino, crudele e buono, docile e violento, tenero e selvaggio, sintesi di opposti infiniti di cui solo a noi tocca scegliere da che parte stare.

Nella seconda parte della pellicola compare Barbara Alberti, nota maggiormente come scrittrice e sceneggiatrice, ottima nella resa d’un personaggio aristocratico, finto e formale, stonante tuttavia con tutto quanto finora descritto e visto prima della sua comparsa come nonna dei bambini nel film. Ma è personificazione del male, bugiardo ingannatore, doppia faccia di quella stessa dea Fortuna presente sin dal titolo, doppia faccia maligna da non evitare, ma affrontare, e così allontanare.

Una commedia così tesa in equilibrio tra “realismo” e “simbolismo” non poteva non accogliere tra i suoi caratteri fondamentali anche quello della sensibilità, che conduce spesso lo spettatore alla commozione, soprattutto quando il bambino ripete un gesto analogo a quello che gli aveva insegnato tempo prima uno dei due protagonisti (Edoardo Leo alias Alessandro), denso di metafora e pietà, tenendo anche conto dell’obiettivo sperato e non raggiunto, quindi infranto (almeno in quel momento) da parte del bambino.

Per non parlare poi della sensibilità adottata come strada maestra alternativamente alla denuncia sociale programmatica per comunicare finalmente e in conclusione di tutta questa meravigliosa storia che, analogamente a quanto ha dichiarato lo stesso regista di recente, “si è genitori dalla cintura in su!”. Insomma, qui è possibile ed opportuno azzardare che Ozpetek ha, attraverso una sola pellicola, innovato completamente il paradigma di fondo della vera Commedia all’Italiana, proponendo una via forse anche più efficace, sempre tenendo conto dei tempi che stiamo vivendo: ha cioè sostituito la poesia alla denuncia per condannare ugualmente un aspetto sociale contemporaneo molto forte e dibattuto, ossia il “problema” delle coppie omogenitoriali. Quindi, incredibilmente il regista si ispira alla realtà e propone un cambiamento della stessa facendo breccia nel cuore con l’arma più nobile per comunicare un messaggio di denuncia: l’arte, la poesia, la musica. Perché è rilevante assai anche la colonna sonora, che tocca livelli aulici ed emozionanti quando si sente cantare “Luna diamante” da un’icona della storia della musica italiana quale debba essere considerata Mina.

E, forse inconsapevolmente, nel tentativo di rinnovare con audacia ed efficacia i moduli stilistici della “Commedia d’oro”, Ozpetek non la stravolge del tutto, consapevole della sua importanza aurea nella storia del nostro cinema, e così inserisce all’interno del cast una serie di personaggetti vivaci e divertenti (l’infermiera su tutte) che sono una valida riproposizione in tempi moderni dei caratteristi che fecero grande il genere “magno” del cinema nazionale.

Pur subendo un rallentamento di montaggio nelle sequenze del viaggio e dell’arrivo in Sicilia (tentativo forse di rendere la visualizzazione di un viaggio dell’anima intorno a se stessa?), stando alla luce di tutte queste considerazioni, concludo affermando che “La dea fortuna” è uno dei capolavori del cinema contemporaneo, e non solo italiano: meriterebbe almeno una Nomination all’Oscar. Dubitando che questo possa accadere, sono però altrettanto sicuro che in futuro di un film che fa bene all’anima e al cuore non si potrà tacere: mai…

P.S- Fine la scelta del nome di “Lega lombarda” per la via presso cui risiede la coppia gay.

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