La belle époque

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Realtà e finzione sulla strada della saudade Valutazione 3 stelle su cinque

di Eugenio


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giovedì 30 aprile 2020

 Sprizza saudade e tanta resilienza al tempo che passa, il film di Nicolas Bedos, vincitore della miglior sceneggiatura originale ai Cesar del 2020 (e anche della miglior scenografia), un film che guarda nostalgicamente al passato per proiettarsi con delicatezza verso il futuro.

 
 
Protagonisti due coppie, la prima di sessantenni: lui, Victor (Daniel Auteuil) disegnatore disoccupato, pervicacemente intrappolato in un passato “analogico”, fatto di un mondo di carta e pennelli che non esiste quasi più; lei, Marianne (Fanny Ardant), psicoanalista, cinica, acida e dispotica che lo molla senza pietà ricercando nel miglior amico di Victor, lo stimolo sessuale a una relazione in declino. Eppure Victor e Marianne si sono voluti bene e tanto. Si conobbero in una “rocambolesca” giornata del 1974, il sedici maggio, a partire dal quale niente sarebbe più rimasto come prima.
 
 
La seconda coppia più giovane, una quarantina d’anni o poco più: lui, Antoine (Guillame Canet), gestore di una società particolare capace di far rivivere, previa una spesa non propriamente modica, la “scena” che il cliente desidera, in qualunque periodo storico essa sia ambientata. Lo scopo? Recuperare appunto quel lacerto di nostalgia, placebo perduta, che permetta di rievocare l’amore di una vita. Lei, Margot (Doria Tiller), isterica attrice da Antoine bramata, che non sopporta il suo “capo” nei deliri di sceneggiature folli da “Deus ex machina”, salvo finire immancabilmente nel suo letto.
 
 
Victor paga e anche salatamente i suoi ultimi risparmi per recuperare appunto quella scintilla di vita del 16 maggio 1974. Incarica quest’agenzia, fornisce loro i bozzetti del bar dove conobbe la sua amata Marianne, ne condivide con loro i ricordi affinchè tutto sia realizzato al meglio.
 
 
Il resto è pura scena in cui lo stesso Victor si illude di vivere, finendo, come ogni commedia che si rispetti, di innamorarsi dell’attrice che impersona la donna amata. Ovvero di un fantasma, di un passato a cui tende in maniera quasi maniacale. Come Antoine del resto, coinvolto anche lui in una passione che sfocerà presto in un dramma di gelosia.
 
 
La belle epoque, dal sapore vagamente retrò, è l’idillio leopardiano in cui tutto nasce. Un idillio fittizio, specchiato in un’innovazione che Nicolas Bedos, artista poliedrico e narcisista (oltre che autore teatrale e opinionista) non vede di buon occhio e che tende a rinnegare come uno dei suoi alter-ego, Victor, stanziato dietro il muro del conservatorismo analogico oltre il quale vi è il digital-mondo fatto di nulla, anche di sesso senza amore, a cui tende la consorte. Ovvero la morte dell’amore, diventato quotidianità distante e ricerca “del proibito”, del nuovo che si fa strada entro le pieghe di un “giovane” raccoglimento proibito.
 
 
Bedos mescola realtà e finzione generando una brillante commedia in cui a far da collante è l’amore. Come nel film d’esordio del regista Un amore sopra le righe, raccontava la storia di una passione lunga quarant’anni fra due scrittori, alti e bassi e reciproche invidie, ecco anche in La belle epoque vi è qualcosa di simile, un confronto con una storia che dura da quasi cinquant’anni, apparentemente limitata nel tempo ma in realtà senza vincoli relativistici pur se kitsch in alcuni frangenti.
 
 
 
 
 
Quelli dove appare il contraltare zoppo di Victor (e dello stesso regista), Antoine, megalomane, irretito e coinvolto dalle storie dei clienti da renderle quasi sue, incapace di comprendere ciò che appunto non si può spiegare nei sentimenti contradditori che pullulano di vita, di amarezza, di dolore ma anche di dolcezza.
 
 
Ecco svelato il mistero ed è inutile una fredda benchè studiata ricostruzione di un rimorso, di un non detto, di una libertà incasellata e precostituita fatta di dialoghi precotti che lo stesso cliente persino corregge. Il mistero dell’amore è una partitura musicale che urla libertà cancellando i rimorsi nostalgici dal viaggio triste, vivendo ogni momento con ogni turbamento (come diceva Vasco in una celebre canzone), spiazzando persino noi stessi spettatori del film e della vita che si fa scena con il suo bel rumore di fondo, fosse anche un tango argentino o le chiacchiere posticce degli avventori di un bar di periferia, La belle Epoque, appunto

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