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Judy Garland diva con tanti guai e troppi mariti

di Natalia Aspesi La Repubblica

C'è un certo fermento anche in Italia per l'arrivo di Judy Garland, alias Renée Zellweger, nel il film alla prima signora dedicato e dalla seconda fortemente voluto, coprodotto e interpretato. Ad aspettarlo è il mondo gay che anche da noi stravedeva e parzialmente ancora stravede per la diva da cinquant' anni defunta, mai venuta personalmente in Italia, diventata una specie di santa patrona, detta icona, di quella community mondiale: come da noi in tempo di guerra Wanda Osiris, e poi Dalida, Patty Pravo e adesso pare persino la Santanchè, degli omo clandestini di Casa Pound. Di una vita interamente melò Judy sceglie gli anni senza scampo, gli ultimi della sua breve vita che consentono oggi di commuoversi come gli avi alla Boheme e alla Traviata. Ultimi mesi del 1968, Judy Garland, ancora star, è però una vagabonda senza casa, senza soldi, appena divorziata dal quarto marito, sola perché Liza, figlia del secondo marito, il regista Vincente Minnelli, già lavora nel cinema (nel 1972 sarà la meravigliosa Sally Bowles di Cabaret, poi anche lei troppi mariti, quattro, e alcol e farmaci), e Lorna e Joey, i due figli ancora bambini, scelgono di stare col padre, il produttore Sidney Luft, terzo marito, che nel 1954 era riuscito a far tornare al cinema la Garland con È nata una stella, grande successo di critica e di pubblico, poi tutti e due licenziati per gli incassi inferiori ai costi. Renée ne fa una mamma incosciente ma appassionata, tipo vittima dei cattivi comunisti di Bibbiano, e il regista Rupert Goold con lo sceneggiatore Tom Edge evita episodi contenuti in biografie sempre alla Bibbiano ma al contrario, come minacce con coltello ai piccini stessi e tentativi di suicidio davanti a loro. Ma l'interprete è all'altezza della protagonista, riesce a immedesimarsi con massima audacia nell'esistenza di un mito che non accenna a spegnersi? Si sa che Zellweger è candidata agli Oscar con buone possibilità di vincerlo: ci sono specialisti che la consacrano commossi, poi c'è anche chi la trova antipatica avendo infastidito anni fa in quanto Bridget Jones che ultratrentenne - e grassoccia!!! - conquistava Colin Firth, bidonando i nostri sogni. Per non parlare di quando, avendo completamente cambiato faccia, continuò a negare incattivita qualsiasi intervento che ormai fa chiunque speri nei miracoli: e basta vederla adesso su Netflix nelle dieci puntate di What/if, sempre nel ruolo di mamma però ricchissima e crudele, per apprezzarne l'aspetto carino ma alieno. In Judy il trucco cancella sia la prima che la seconda (anche terza forse) faccia di Renée, rendendola davvero molto somigliante alla povera disperata, però esagerando sul palcoscenico nel gesso bianco alla Joker. Della Judy che ricordiamo dalle foto e dai film non sappiamo se davvero nella vita tanto si contorcesse, strabuzzasse e strizzasse gli occhi come mirabilmente l'interprete sa fare. Di sicuro si può dire, almeno dice chi sa, che per quanto Zellweger sia anche cantante e ballerina scatenata (come in Chicago, 2003) e qui coraggiosamente affronti Over the rainbow, il paragone è impossibile. Judy-Renée arriva a Londra dove ancora non la scansano, con bellissimi vestiti laminati sul corpo consunto, manciate di pillole giorno e notte, insonnia, paura, crisi di nervi, fughe. L'ha scritturata un cabaret molto alla moda, The talk of the town, per cantare tra i tavoli mentre sul palcoscenico ondeggiano bellissime stangone sulla cui testa e sedere si agitano enormi piume. Quando è sublime scrosciano gli applausi, quando si perde nell' angoscia fischiano e le gettano addosso brandelli di cibo. Fa a tempo a litigare col quinto marito, musicista, 13 anni più giovane di lei, sposato nel marzo del 1969 (c' è un video del matrimonio, tutti e due hanno l'aria felice, lei pare più sveglia di come ce la impone Renée): tre mesi dopo, il 22 giugno, la trovano nel bagno del suo appartamentino a Chelsea, morta in solitudine. È l'anno in cui Zellweger nasce in Texas, in aprile, oggi ha i 51 anni contemporanei, cioè vellutati, Garland è crollata a 47, sfinita. Il film si apre con il ricordo, o l'incubo, di Judy, fanciulla provinciale dalla bella voce (una bruttina Darci Shaw, che non canta) che cade nelle grinfie di un Weinstein di allora, il potente produttore Louis B. Mayer, che non solo la molesta mettendole la mano sul seno sinistro con la scusa di indicarle il cuore, ma non ancora diciottenne, la inizia alle droghe per non mangiare e ingrassare, che poi la obbligano a prenderne altre per dormire. La scena ricorda il set di Il mago di di Oz uscito con immenso successo nel 1939, e da allora Over the rainbow è diventata la canzone dei gay, che anni dopo hanno adottato ovunque come loro simbolo la bandiera arcobaleno. Quel film era un simbolo, un tesoro segreto, dove il leone effeminato era ben accetto. Negli anni della persecuzione, quando dovevano occultarsi, un modo per riconoscersi era definirsi "amici di Dorothy", il personaggio interpretato da Judy, che veniva anche chiamata la Elvis Presley dei gay. C'è chi sostiene che la storica rivolta allo Stonewall di New York contro gli arresti e le bastonate della polizia fu provocata anche dal cordoglio per la sua morte a Londra, e la commozione al funerale a New York, seguito da 20mila perone. I gay hanno fatto anche parte della sua vita: era gay suo padre, lo era Minnelli, lo era Herron, che per sposarla aveva lasciato il compagno per poi tornare da lui, lo erano tanti amici tra cui George Cukor, il regista di È nata una stella. La cultura gay definisce tuttora leggendario il concerto di Judy al Carnegie Hall dell'aprile 1961, e Rufus Wainwright, altro idolo gay, tiene concerti in suo nome. E nel film? Una coppia di amici coabitanti e basta.
Da La Repubblica, 26 gennaio 2020


di Natalia Aspesi, 26 gennaio 2020

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