Doctor Sleep

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Luccicanza annacquata Valutazione 3 stelle su cinque

di Eugenio


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venerdì 15 novembre 2019

Paura, angoscia, depravazione e un pizzico di noia nell’ultimo film di Mike Flanagan. L’impresa però non è da tutti e farebbe tremare i polsi a un novizio: tradurre il seguito di Shining di Kubrick, Doctor Sleep, in un prodotto che, accettate le variazioni che ogni trasposizione cinematografica impone sul testo, risulta essere accattivante malgrado qualche scivolone inevitabile nella sceneggiatura.
Del resto la lunghezza non aiuta. E’ un’arma a doppio taglio: ti coinvolge sicuramente ma al tempo stesso non aiuta nello svolgimento di una trama complessa già di suo nel romanzo. Due ore e trenta piene in cui scopriamo, per chi non lo conosce, il destino del bambino che usava il triciclo in quell’Overlook Hotel dannato, scene rimaste e consacrate alla storia come il famoso piano sequenza e quel lungo fiume di sangue che irrompeva dalle porte, sfumando nella follia.
Danny Torrance, sì, quello della luccicanza. Ora è cresciuto, non propriamente benissimo (sfido direte voi… con quello che ha passato col padre…) ha toccato il fondo ma da questo, si è rialzato, stabilendosi, in una cittadina quieta. Ha conosciuto Bill, grazie al quale è riuscito a trovare una parvenza di normalità lavorativa, si è disintossicato, frequentando un centro di alcolisti anonimi, ha ripreso lentamente a vivere insomma.
Altrove però la minaccia incombe. Una carovana di strani figuri rappresentati come novelli zingari con roulotte a seguito si nutre della paura, del dolore di umani, con particolare predilezione per i bambini, uccidendoli senza pietà e violandone brutalmente la loro infanzia.
Il boss di questo deprecabile gruppo è Rosie the Hat (nel film interpretata da una brava Rebecca Ferguson) che cappello a larghe falde e occhi a led come Terminator, si muove come vampiro alla ricerca di potenti “elementi” da asservire oppure da uccidere. Piano semplice dagli illustri passati come Il popolo d’autunno di Ray Bradbury: c’era un circo là e qui una carovana di nomadi mangia-bambini. Stranieri diversi, stranieri “cattivi” che King, da buon democratico del Maine, traspone in minaccia di una società ossessivamente consumistica che uccide, distrugge valori che potrebbero diventare stelle nel cielo e nella vita ma finiscono semplici pasti caldi di assetati assassini.
Flanagan non indugia su questo. Vedasi la forte scena inaspettatamente violenta del “bambino del baseball” la cui morte è quasi vissuta in diretta da una bambina (di colore) Abra, dalla luccicanza così potente da riuscire a mettersi in contatto telepatico proprio con Danny Torrence (le coincidenze della vita..), invitandolo, obtorto collo, a sconfiggere per sempre quelle creature attirandole in una trappola letale e chiudendo il circolo vizioso di quelle misteriose sparizioni.
Danny, riluttante, si opporrà almeno inizialmente lasciando la bambina al suo destino ma non potrà far altro che accettare quella sfida, facendo i conti col suo delirante passato mai sepolto in quell’ Overlook Hotel popolato da antichi demoni dove la storia ebbe inizio e dove finirà. Per sempre?
Leggete o guardate.
Le differenze ci sono, molte.
 
A cominciare dal protagonista: Il Danny di Doctor Sleep (dal volto di Ewan Mc Gregor) è meno bipolare, più consapevole del suo fardello e del suo posto nel mondo. Mondo che non ruota più intorno a lui come nel romanzo, si muove dinamicamente, ipercinetico. Poi i protagonisti: al di là del deus ex machina di Abra, la bambina che risolve ogni cosa, richiamo alla cinematografia anni ’80 di Wes Craven, gli altri co-protagonisti, inevitabilmente sfumano a figure di contorno abbozzate e mai completamente delineate, in un gioco al massacro che perde pezzi da metà film.
Eroi ed antieroi sono appiattiti, quasi disumanizzati, privi di una connotazione che nelle pagine di King ci faceva saltare sulla sedia. La classica partita bene/male; demoni/angeli sterminatori, si muove inevitabilmente verso il ricercato climax, l’affermazione di Danny col padre Jack Torrance, in un incontro-scontro in cui gli alvei della mente, ignote macchine di cui sfruttiamo solo una minima parte, si rivelano in tutta la loro potenza annacquata come whisky diluito con acqua. Non esalta, non commuove, non affonda e al termine, ciò che ci rimane, non è quella sensazione di piacevole stordimento ma quella di un prodotto modesto e privo di guizzi, ricordo vago di uno Shining sfumato in note di irriverente follia. Anche se, molto in fondo, accattivante.
 

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