American Skin

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Manuela Caserta

L'Espresso

American Skin di Nate Parker alla sua seconda opera che riceve il sostegno e la presenza a Venezia di Spike Lee, è uno dei prodotti della sezione Sconfini della Mostra. È la storia di un caso di cronaca realmente accaduto: un uomo di colore, Lincoln Johnson veterano della guerra in Irak, una notte viene fermato in auto dalla polizia e durante il controllo gli viene ucciso il figlio, ma l'agente omicida non riceverà punizioni e verrà addirittura assolto e reintegrato immediatamente al lavoro. Lincoln che nel film viene interpretato dallo stesso regista, decide di prendere in ostaggio l'intero distretto di polizia locale e mentre fuori si scatena un esercito di tiratori scelti, lui e i suoi complici, dentro, inscenano un processo privato all'agente con una giuria scelta tra gente comune presente, detenuti e film-maker al seguito. È il cinema della lotta di classe, quello contro il razzismo e le differenze che fa emergere tutte le contraddizioni di una società illusoriamente libera. È un film di denuncia, strutturato su una sceneggiatura di cronaca nella quale si respira rabbia e ingiustizia. Carica lo spettatore, arringa l'autorità e commuove. E' un film per chi ancora crede che l'America sia davvero un paese libero per tutti, anche per chi non ha i soldi per una polizza assicurativa sanitaria e nemmeno quelli per far studiare i propri figli nei college privati, lontano dalla delinquenza inevitabile degli istituti pubblici. Ci sono parole lapidarie contro il sistema americano nella sceneggiatura scritta da Parker: " come si può chiedere a un afroamericano di andare a combattere e morire per la patria in Irak per poi essere trattati come razza inferiore, senza un'equa giustizia contro i crimini subiti in patria?!". Gli americani non fanno mai i conti con i propri errori, e già qualche anno fa Susan Sontag lo scriveva: non esiste in America un museo che ricordi gli orrori della schiavitù. L'autoassoluzione si fonde con l'idea "meritocratica" di concedere un riscatto possibile per molti, ma non per tutti. Per fortuna esiste il cinema di denuncia. American skin di Nate Parker ed Ema di Pablo Larrain hanno in comune una critica caustica che scivola candida da un paio di battute delle sceneggiature verso due generi musicali molto in voga tra i giovani: il raggeton e l'hip-pop. Entrambi simbolo di contestazione, rifiuto, denuncia e antisistema. In American Skin sono gli stessi protagonisti di colore che accusano i bianchi di alimentare il mercato dell'hip pop comprando questo genere di musica. Mentre in Ema, il coreografo Gastòn, interpretato da Gael Garcia Bernal, accusa la sua ex e le sue amiche di lasciare la compagnia per andare a ballare il reggaeton per strada, ispirandosi a testi che incitano alla violenza, al sesso promiscuo e all'assenza di regole. La domanda su quale sia l'origine della violenza e delle discriminazioni è un fil rouge che attraversa molte opere, e la risposta è sempre l'ingiustizia, la mancanza di istruzione e di cultura.
Da L'Espresso, 3 settembre 2019


di Manuela Caserta, 3 settembre 2019

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