laura menesini
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mercoledì 5 dicembre 2018
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l'umanità innanzi tutto
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Film molto bello e tremendamente umano e attuale. Il protagonista lavora in un'azienda di spedizioni (tipo Amazon) dove le dimensioni e i ritmi sono allucinanti e perfino la telecamera in quei momenti accelera. Olivier ha un buon rapporto con gli operai, ma, nonostante sia un caporeparto, non riesce ad evitare il licenziamento di chi è anziano e anche con tutti gli sforzi possibili non regge i ritmi imposti dalla direzione o della donna che si è presa il lusso di rimanere in cinta. Tutto questo lo prende a tal punto che "trascura" la famiglia e il peso della casa e dei figli ricade solo sulla moglie che a un certo punto stramazza a terra e non trova altra soluzione che sparire.
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Film molto bello e tremendamente umano e attuale. Il protagonista lavora in un'azienda di spedizioni (tipo Amazon) dove le dimensioni e i ritmi sono allucinanti e perfino la telecamera in quei momenti accelera. Olivier ha un buon rapporto con gli operai, ma, nonostante sia un caporeparto, non riesce ad evitare il licenziamento di chi è anziano e anche con tutti gli sforzi possibili non regge i ritmi imposti dalla direzione o della donna che si è presa il lusso di rimanere in cinta. Tutto questo lo prende a tal punto che "trascura" la famiglia e il peso della casa e dei figli ricade solo sulla moglie che a un certo punto stramazza a terra e non trova altra soluzione che sparire. Ecco che sul nostro uomo ricade l'impegno della famiglia e la coscienza del suo torto e, anche se aiutato dalla madre, la sua vita cambia totalmente. I bambini sono eccezionali e recitatno da grandi attori, la piccola che si avvolge nella sciarpa della mamma per sentirne il profumo è toccante, ma la loro ricerca creerà altri problemi. Solo la presenza della sorella porterà una ventata d'aria fresca in una casa tetra e permetterà a Olivier anche una scappatella sessuale, ma il nostro uomo non abdicherà mai al suo senso di giustizia e la sua umanità guiderà tutte le sue scelte, perché la giustizia sociale, per quel poco che è in nostro potere, deve prevalere su tutto il resto.
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cinefoglio
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lunedì 11 febbraio 2019
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istantanea di le nostre battaglie (nos batailles)
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Un’opera che sfugge al tempo. Il racconto di una famiglia «normale» alle prese con le vicissitudini quotidiane del vivere sotto lo stesso tetto, del duro lavoro e delle responsabilità genitoriali. Un film tanto vicino a coloro che, per il bene dei propri figli, mettono da parte la propria carriera. Un film che tanto si allontana da chi, dalle proprie responsabilità, fuggirebbe lontano, per trovare, al massimo, un poco di quiete.
Il belga-francese, Guillaume Senez, ci immerge, per un lungo istante, in una Lione della vita quotidiana, dei commessi negli shop e degli operai dei grandi centri di stoccaggio. Una città dipinta dalle lotte sociali (tanto care al Daniel Blake, 2016, di Loach), alle contraddizioni meno visibili (e le più incomprensibili), di una famiglia normale, ordinaria, tranquilla.
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Un’opera che sfugge al tempo. Il racconto di una famiglia «normale» alle prese con le vicissitudini quotidiane del vivere sotto lo stesso tetto, del duro lavoro e delle responsabilità genitoriali. Un film tanto vicino a coloro che, per il bene dei propri figli, mettono da parte la propria carriera. Un film che tanto si allontana da chi, dalle proprie responsabilità, fuggirebbe lontano, per trovare, al massimo, un poco di quiete.
Il belga-francese, Guillaume Senez, ci immerge, per un lungo istante, in una Lione della vita quotidiana, dei commessi negli shop e degli operai dei grandi centri di stoccaggio. Una città dipinta dalle lotte sociali (tanto care al Daniel Blake, 2016, di Loach), alle contraddizioni meno visibili (e le più incomprensibili), di una famiglia normale, ordinaria, tranquilla.
Le Nostre Battaglie ci racconta dei rapporti umani nudi e crudi, e non parafrasati, a volte sfuggevoli per disattenzione (che è una caratteristica naturale della fallibilità umana), a volte commoventi per empatia. Un affare di famiglia genuino, che travalica le difficoltà della famiglia protagonista, puntando ad un’immagine universale dei rapporti domestici.
Se ogni pellicola ha il suo tratto distintivo, Nos Batailles fa suo l’estremo realismo del focolare, in una pennellata, cercando i dettagli del blu più intenso. Dalla carrozzeria dell’auto al giubbetto catarifrangente di Olivier (interpretato da un convincente Romain Duris), dalla clessidra-timer per lavarsi i denti, al maglioncino di seconda mano. Il blu, colore tutto francese, iconico della passione di Adèle (2013), qui, invece, suggerisce pazienza ed accettazione, in contrasto con le macchie rosse dei berretti di Babbo Natale, con lo spirito estroverso di Betty, sorella artista di Olivier, e con le lettere di un messaggio, eterno sulla pietra, di un «ti aspetteremo!»
Una pellicola leggera, superbo prodotto per la trasmissione televisiva, ma con un ventaglio di tematiche vasto, seppur con il pregio di raccontare tanto e nel tempo giusto, senza scavare a fondo in cerca del petrolio, combustibile e fiamma, dei sentimenti più nascosti.
Pregio da pelle d’oca va certamente a Lucie Debay, che anima (anche se di breve durata) Laura, una madre tanto fragile quanto magicamente devota a Elliot e Rose, specchi della fanciullezza.
Un film alla francese, certo, irriverente e con una buona dose d’ironia, vino da conversazione ed il confronto con il mondo concreto che (ci)-li circonda.
07/02/2019
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vanessa zarastro
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mercoledì 13 febbraio 2019
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un padre troppo impegnato
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Uscendo dal cinema riflettevo sul fatto che i giovani maschi francesi, credevo fossero oggi un po’ più sensibili di quanto mostrato nel film.
In “Le nostre battaglie” Olivier Vallet - molto bene interpretato da Roman Duris, attore feticcio di Cédric Kaplisch - è un operaio specializzato di una fabbricahi-tech nel Dipartimento dell’Isére, in Auvergne-Rhône-Alpes. Fa anche parte del sindacato ed è sempre molto preso dal suo lavoro, tanto che torna a casa la sera piuttosto tardi e finisce per trascurare la moglie Laura e i figli piccoli, Eliot di nove anni e Rose di cinque.
Sul lavoro è molto amato, è attento ai vari lavoratori, ed essendo un capo-squadra insegna con pazienza a tutti come e cosa devono fare, con pazienza.
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Uscendo dal cinema riflettevo sul fatto che i giovani maschi francesi, credevo fossero oggi un po’ più sensibili di quanto mostrato nel film.
In “Le nostre battaglie” Olivier Vallet - molto bene interpretato da Roman Duris, attore feticcio di Cédric Kaplisch - è un operaio specializzato di una fabbricahi-tech nel Dipartimento dell’Isére, in Auvergne-Rhône-Alpes. Fa anche parte del sindacato ed è sempre molto preso dal suo lavoro, tanto che torna a casa la sera piuttosto tardi e finisce per trascurare la moglie Laura e i figli piccoli, Eliot di nove anni e Rose di cinque.
Sul lavoro è molto amato, è attento ai vari lavoratori, ed essendo un capo-squadra insegna con pazienza a tutti come e cosa devono fare, con pazienza. L’attuale crisi economica però porta a licenziamenti successivi che toccano, guarda caso, le fasce più deboli: raggiungerà l’operaio di cinquantaquattro anni che non può ricostruirsi una vita, e la ragazza incinta non vedrà rinnovato il suo contratto di lavoro. Oliver è sempre il primo ad arrivare là dove c’è da lottare e dove c’è un problema, talvolta purtroppo troppo tardi, come nel caso del compagno di fabbrica che, disperato, si è tagliato le vene.
Un giorno improvvisamente la moglie di Olivier, pur amando lui e i bambini, decide di andarsene, così senza dire nulla: non ne poteva più di una vita di sacrifici soffocante e di essere contornata da tutte persone povere e sofferenti. Da quel momento in poi Olivier si trova a fronteggiare problemi fino allora ignorati, specialmente per ciò che concerne la vita dei figli e la gestione della casa. Non si dà pace per il gesto inspiegabile della moglie e la cerca in vari luoghi. Va in treno perfino a Calais, dove lei aveva vissuto da piccola, a cercarla negli ospedali. Non riesce a trovare nulla, lei, dopo due mesi di silenzio, ha mandato solo una cartolina indirizzata “Alla famiglia Vallet”, forse per far sapere che è viva e che ama tutti quanti.
Il film quindi prende una piega intimista, arriva Betty la sorella attrice di Olivier, ospite per qualche giorno per festeggiare il nono compleanno di Eliot. La madre, la collega, tutti cercano di dargli una mano, anche se lui è molto ostinato e difficile da trattare. È sempre chiuso in se stesso, reprime il dolore, evita di parlare della fuga della moglie, con la scusa che i bambini è meglio che non ci pensino…
Belli sono i dialoghi/scontri tra fratello e sorella, legati da grande affetto, ma completamente diversi nelle scelte di vita, differenze che purtroppo vengono fuori e si rinfacciano l’un l’altro, come succede in tutte le famiglie. Così pure sarà tra lui e la madre troppo ansiosa.
A livello lavorativo gli verranno offerti due lavori agli antipodi: uno in fabbrica alle risorse umane (quelli che si occupano della programmazione del personale e quindi licenziano…) con notevole aumento di stipendio, l’altro come rappresentante sindacale, ma lontano, a Tolosa.
Alla fine, Olivier e due figli vanno perfino da una psicologa perché avendo subito il trauma dell’abbandono, ognuno presenta un sintomo diverso e ha bisogno una psicoterapia di sostegno per affrontare la solitudine.
Il film triangola la Francia su tre luoghi, ognuno all’estremo confine dall’altro, evitando accuratamente Parigi. Sono luoghi di lavoro usuranti, sono città portuali o zone industriali. Andranno a vivere a Toulouse dove c’è l’industria alta tecnologia e industrie chimiche. La sua è una scelta di cambiamento – un’altra città, un’altra casa ecc. - ma è anche una scelta etica, crede ancora nelle battaglie sindacali.
Nella seconda opera del regista belga – la prima era “Keeper” del 2015 premiata a Locarno e a Torino - la narrazione è misurata non c’è nessun tono pietistico, anche perché, in fondo, la cocciutaggine del maschio fa a volte più rabbia che pena, come dice Federico Pedroni in Cineforum, «mischiando debolezze e ruvidità».
La cinematografia francese recente mostra tematiche relative alla crisi economica e sociale: disoccupazione, licenziamenti, fragilità famigliare e uomini tutti d’un pezzo (ma a caro prezzo!). Così anche il recente “In guerra”di Stéphane Brizé,un film militante che tratta delle lotte operaie dei lavoratori della fabbrica Perrin ad Agen, nel Sud Ovest della Francia. In quel film la fabbrica sta per essere chiusa per essere delocalizzata in Romania e 1100 lavoratori stanno per essere licenziati, in una Regione economicamente in crisi.
“Le nostre battagliesi apre con la canzone Oh Baby di LCD Soundsystem del 2017 e si chiude con Heaven di Blaze del 2018, entrambe significative. Il film è stato presentato in anteprima a Cannes, nella sezione Semaine de la critique e ha ottenuto il premio Cipputi al Festival di Torino.
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carlosantoni
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mercoledì 13 febbraio 2019
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il privato è politico, come si diceva una volta
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Già il titolo è di tutto rispetto: perché allude assai chiaramente a battaglie per l’esistenza, e perché le declina al plurale: quelle battaglie sono “nostre”, appartengono a tutti noi, poiché tutti insieme combattiamo. Combattiamo per che cosa? Perché il lavoro salariato non sia sempre più spogliato di diritti, e sempre più spersonalizzato. Ottimo film, politico nel senso alto del termine, quello di Guillaume Senez, interpretato da un altrettanto ottimo Romain Duris.
A ben vedere, la vicenda si concentra proprio sul suo personaggio, Olivier, un tecnico alle dipendenze di una società di medio-grandi dimensioni, fortemente informatizzata, al cui interno svolge attività di dirigente sindacale, ammirato e stimato dagli operai, ammirato stimato e temuto, per il suo carisma, dai padroni.
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Già il titolo è di tutto rispetto: perché allude assai chiaramente a battaglie per l’esistenza, e perché le declina al plurale: quelle battaglie sono “nostre”, appartengono a tutti noi, poiché tutti insieme combattiamo. Combattiamo per che cosa? Perché il lavoro salariato non sia sempre più spogliato di diritti, e sempre più spersonalizzato. Ottimo film, politico nel senso alto del termine, quello di Guillaume Senez, interpretato da un altrettanto ottimo Romain Duris.
A ben vedere, la vicenda si concentra proprio sul suo personaggio, Olivier, un tecnico alle dipendenze di una società di medio-grandi dimensioni, fortemente informatizzata, al cui interno svolge attività di dirigente sindacale, ammirato e stimato dagli operai, ammirato stimato e temuto, per il suo carisma, dai padroni. Dico “a ben vedere”, poiché apparentemente il film, prendendo inizio con la scomparsa della moglie di Olivier, con la sua lacerante e apparentemente inspiegabile fuga, e insistendo fino alla fine sulla sua ricerca, in fondo sembra far di lei, nella sua assenza, la vera protagonista.
Ma non è così, il protagonista a tutto tondo è proprio Olivier: lavoratore, sindacalista vero, onesto, che crede nella funzione che volge in difesa degli operai, e che personalmente versa in forti difficoltà economiche. E poi padre che intende svolgere al meglio il suo ruolo, cui spesso non sa materialmente come poter far fronte: per mancanza di energie, di tempo, di esperienza. Deve fare da padre e da madre, e non sa come poter svolgere al meglio questa duplice funzione genitoriale, ma s’impegna al massimo, cercando di coinvolgere in questo compito difficile la madre e la sorella.
Olivier è onesto, sincero, ma non è un eroe senza macchia: è un uomo in gamba, forte e tuttavia con le sue debolezze e i suoi bisogni. Ed è proprio sulle sue debolezze e i suoi bisogni, oltre che sulle sue competenze professionali e il suo carisma da sindacalista, che alla fine del film la direzione della sua azienda fa perno, suggerendogli di saltare la staccionata e di diventare responsabile delle “risorse umane”: così, da arma di difesa nelle mani degli operai (Olivier esalta più volte l’efficacia della lotta sindacale in quanto a lottare non sono singoli operai, ma “tutta la squadra”), potrebbe diventare un coltello impugnato dal padrone, diretto alla gola dei suoi compagni: lui che bene ne conosce segreti e debolezze. Olivier sembra del tutto renitente a questo invito, ma il suo dirigente lo liscia per il pelo, gli dà tempo per pensare e decidere, ben sapendo che il tempo lavora a favore delle lusinghe.
Non è l’unica opzione che Olivier ha davanti: all’opposto, il sindacato in cui milita gli ha offerto un ruolo di dirigente sindacale di tutto rispetto, ma è una proposta che Olivier giudica difficile da accettare, perché per farlo dovrebbe trasferirsi nella lontana città di Tolosa.
Non si sa come andrà a finire, non si sa che strada Olivier deciderà di prendere. E neppure si sa se lui e i suoi due figli riusciranno a ritrovare moglie e madre, e a riunire la famiglia: il film si chiude con le immagini di loro tre che girano in macchina una zona della Normandia in cui lei sembra si sia rifugiata, scrivendo sui muri che la stanno aspettando: una specie di messaggio nella bottiglia. Il finale è dunque apertissimo.
Film duro, ben costruito, che parla della spersonalizzazione del lavoro salariato, delle condizioni lavorative sempre più punitive, della disciplina a volte perfino grottesca (sotto Natale, i dipendenti, maschi e femmine, sono obbligati a indossare un berretto da Babbo Natale: esattamente come da noi, per esempio, avviene alla Coop!), e della difficoltà inaudita di portare avanti queste battaglie, “le nostre”, facendole conciliare con i problemi a volte acutissimi che si scatenano in famiglia.
Ottimo film per restare lucidamente incazzati contro i padroni, perciò ve lo consiglio.
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enricodanelli
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lunedì 1 aprile 2019
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carne da macello ossia ..
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... la dittatura dell'E.b.i.d.t.a. Il film non è un trattato di economia e neppure di sociologia, anche se lo è entrambi, per giunta con ottimi risultati (la sostituzione, o meglio la pretesa assimilazione, del lavoro umano alle macchine e le drammatiche conseguenze sulla vita degli strati più deboli della popolazione). Il film è molto di più: è un inno alla incrollabile speranza che gli uomini nutrono nel proprio futuro e che è l'unica molla che permette a chiunque di affrontare gli immancabili problemi di ogni giorno. Chi non riesce a coltivare questa speranza viene sopraffatto: la madre, nonostante le buone dichiarate intenzioni con i figli (a cui dice "le storie finiscono sempre, sempre, sempre bene"), non regge la vita alienante che i tempi moderni le impongono; il padre, nonostante le disumane battaglie che si trova ad affrontare in fabbrica e a casa, non si tira mai indietro e rilancia sempre la posta nella scommessa della propria vita e di quella dei figli, nutrendo una incrollabile speranza nel lieto fine della storia, riassunta magistralmente nella scena finale.
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... la dittatura dell'E.b.i.d.t.a. Il film non è un trattato di economia e neppure di sociologia, anche se lo è entrambi, per giunta con ottimi risultati (la sostituzione, o meglio la pretesa assimilazione, del lavoro umano alle macchine e le drammatiche conseguenze sulla vita degli strati più deboli della popolazione). Il film è molto di più: è un inno alla incrollabile speranza che gli uomini nutrono nel proprio futuro e che è l'unica molla che permette a chiunque di affrontare gli immancabili problemi di ogni giorno. Chi non riesce a coltivare questa speranza viene sopraffatto: la madre, nonostante le buone dichiarate intenzioni con i figli (a cui dice "le storie finiscono sempre, sempre, sempre bene"), non regge la vita alienante che i tempi moderni le impongono; il padre, nonostante le disumane battaglie che si trova ad affrontare in fabbrica e a casa, non si tira mai indietro e rilancia sempre la posta nella scommessa della propria vita e di quella dei figli, nutrendo una incrollabile speranza nel lieto fine della storia, riassunta magistralmente nella scena finale. Film stranamente maschilista (tutte le donne del film oggettivamente sono un po' svagate o fanciullesche o comunque calcolatrici) forse più per caso che per convinzione. Sceneggiatura scarna e realista. Il film, per i temi del lavoro e per la ambientazione, ricorda "due giorni, una notte" dei fratelli Dardenne, ma lo supera per positività e significato intrinseco.
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