Capri-Revolution

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C’era in tempo di guerra un gruppo di fricchettoni Valutazione 3 stelle su cinque

di carlosantoni


Feedback: 5973 | altri commenti e recensioni di carlosantoni
venerdì 4 gennaio 2019

Non è un film di cui mi sia facile argomentare, perché è complesso, ambizioso, formalmente ineccepibile… e però distonante: lo si apprezza intellettualmente, ma scalda poco il cuore, e questo per un film non è certo un pregio. Parto dai punti negativi: prima di tutto il titolo, così incomprensibile: che bisogno c’era di unire il nome dell’isola di Capri al termine inglese Revolution, per definire una storia che qui si svolge agl’inizi del Novecento? Ma veniamo alla sostanza. Il film è prolisso, direi che se fosse durato una mezz’ora di meno ci avrebbe guadagnato in armonia descrittiva. In particolare perché si dilunga incomprensibilmente sulle scene di ballo e di esercizi estetici della comunità proto-hippy di cui il film tratta: bastava veramente molto meno e ne avremmo avuto in ogni caso abbastanza: sono scene estenuanti, nella loro inutile bellezza formale, che allude continuamente a Matisse e alla pittura simbolista francese e tedesca di fine Ottocento. Ancora: la figura del “maestro” della comunità, il bellone così iconicamente vicino al Gesù di tante rappresentazioni, con barba e capelli da profeta e la palandrana da Venerabile Ciabatta del Deserto… ma anche simile a Shel dei Rokes degli anni ’60. Veramente troppo macchietta. Poi per la scommessa quanto meno ardita di girare il film quasi tutto “in lingua straniera”: quando napoletano strettissimo (vera lingua straniera per il 99% degl’italiani) con tanto di doverosi e faticosi sottotitoli, quando in inglese o in tedesco fluente, sempre coi sottotitoli: che senso ha, se non quello di uno snobismo intellettualoide francamente insopportabile? A’ Martone! Prenditi le tue responsabilità, e fai a meno dei sottotitoli, e ognuno poi si arrangia come può, oppure fai doppiare e noi ti ringraziamo. Punti di forza: i dialoghi, specialmente quelli tra i due protagonisti/antagonisti maschili, il maestro e il dottore, veri dialoghi platonici che entrambi i personaggi intendono diretti alla ricerca della verità, avvertita in maniera opposta.
Altro punto di forza, la descrizione della tripartizione ideale della cultura isolana caprese nell’anno 1914, che direi plateale metafora di quella nazionale odierna: una prima radice atavica e retriva difficile da estirpare, che però ha le sue ragioni storiche di esistere; una seconda radice, che si vorrebbe scientificamente orientata, razionalistica, materialistica, ma che alla prova dei fatti dimostra di soccombere sul punto essenziale: la guerra! La Prima Guerra Mondiale non viene boicottata e avversata come carneficina voluta dai vari imperialismi, come coerentemente e lucidamente faranno in Russia i Bolscevichi, ma invece irrazionalmente abbracciata con convinzione dal medico “razionalista”: come in Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Colonie, Usa… faranno tanti patriottici nazionalisti, molti dei quali diverranno poi a loro volta fascisti, nazisti, imperialisti…); una terza, quella irrazionalistica-estetica impersonata dalla comunità proto-hippy, proto-figlia dei fiori, che in gran parte del film ruba la scena. E notevole mi pare la descrizione della dialettica e dell’intreccio che incorre tra le tre realtà concrete e ideali, anche se fin troppo intellettualistica, all’interno delle quali la protagonista femminile, Lucia, fa da cerniera e, direi da Aufhebung tra tesi e antitesi, in quanto tutte le prova e tutte in sé le sussume e le supera. Quasi superfluo dire che la scena finale del battello carico di emigranti richiama esplicitamente quanto sta avvenendo ancor oggi, ma in senso geograficamente e sociologicamente opposto: oggi non siamo tanto noi a emigrare verso un’altra patria, quanto semmai siamo una nuova patria per altri migranti che da noi arrivano. Preziosa la fotografia e anche la colonna sonora.
 

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