Bird Box

   
   
   

La natura ci salverà Valutazione 3 stelle su cinque

di Eugenio


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domenica 13 gennaio 2019

Horror, dramma, thriller post-apocalittico e una regista Susanne Bier che nel corso della sua carriera ha indagato spesso e volentieri sulla complicata rete di rapporti sociali umane, sulle crisi identitarie dei protagonisti delle sue pellicole. Suona quindi strano vedere la sua “mano” in Bird Box, distribuito su piattaforma Netflix dal 21 dicembre, un film che di analisi interiore e di incubi alla Strindberg ha poco da spartire.
Eppure, la scelta coraggiosa ad opera della cineasta funziona e il tema appunto di un’apocalisse di non meglio precisata entità, figlia di una notte dei morti viventi, come da diverse storie di genere da molto tempo a questa parte, funziona.
Di primo acchito sin dalle prime scene, alternando il classico “prima” al “dopo”,Bird Box mi ha ricordato un mix tra The road e A quiet place, in particolare quest’ultimo: un robusto quanto deciso thriller post-apocalittico di un’umanità che aveva come scelta il silenzio per la sopravvivenza. Al posto delle parole, altro imperativo: la vista. Altro senso da preservare, che già il premio Nobel Josè Saramago aveva deciso di annullare in uno straordinario romanzo, apologo sulle nostre pulsioni più nascoste, Cecità appunto, dove i pochi superstiti si muovevano tra lacerti di un’umanità devastata e scarnificata.
In Bird Box, gli occhi vanno tenuti ben chiusi, perlomeno al di fuori della propria casa o di un altro luogo sicuro dove sicuro sta per privo di quelle creature demoniache che, se viste, fanno impazzire e spingono al suicidio, alla morte violenta, alla follia.
E poi c’è una donna: Malorie. Interpretata da una convincente Sandra Bullock, nelle prime scene impegnata a fornire dettami, richieste a due bambini (senza nome), un tono brusco e forse poco materno. Con un flashback la vediamo cinque anni prima al nono mese, pochi minuti prima della tragedia, a parlare in tono quasi distaccato alla ginecologa del bambino che porta in grembo. Una donna determinata ma atarassica, quasi decisa a mantenere emozioni, a limitarle per non cadere sopraffatta in un baratro di dolore. Scampata miracolosamente alla “tragedia”, Malorie si unirà a un gruppo di superstiti, impegnandosi a preservare la sua identità di donna e soprattutto di madre.
Per chi ha visto molti film di genere, Bird Boxnon rappresenta certo una novità. Sotto il pretesto di un’apocalisse di genere, Susanne Bier, coglie note di un’umanità “connessa”, la cui rescissione è evidente alla luce di un mondo che deve imparare nuovamente a vedere, a cogliere soprattutto l’essenza dignitaria alla luce di una possibile rinascita. Ma se l’intento evangelico cristiano è assente (la divinità qui è totalmente insensibile, pessimisticamente e leopardianamente al lamento del suo figlio), l’occhio della regia è qui improntato a un percorso in piena salita in cui la protagonista Malorie dovrà imparare nuovamente a comprendere i suoi limiti, a superarli, ad essere aiutata da coloro che poi la ostacoleranno.  
Ci dice Susanne Bier che forse nel contatto con la natura -con le sue voci reali non quelle della mente, in cui vivono i personaggi del film- è possibile ritrovare una propria identità. In un mondo in cui si fanno sempre meno figli, in cui la natalità è vista come un peso, come un aggravio economico per molti, il coraggio di ritornare a vedere e dare un nome alle persone amate, è colmo di speranza.
Nonostante tutto. Nonostante un mondo che ci fa male, che ci fa diventare matti giorno dopo giorno con la dannazione del piccolo inferno quotidiano. Nonostante le lusinghe e i demoni che ci ossessionano e ci affascinano fino alla follia.
Non importa. E se quelle voci si manterranno, la paura di perdere l’identità ci aiuterà. Per diventare più forti. Per far sì che le colpe dei padri non ricadano sui figli. Per sconfiggere e saper affrontare i propri demoni.
Pollice alto con qualche spruzzata di sangue che farà storcere il naso ai perbenisti.

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