L'albero dei frutti selvatici

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Un film di Nuri Bilge Ceylan. Con Dogu Demirkol, Murat Cemcir, Bennu Yildirimlar, Hazar Ergüçlü.
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Titolo originale Ahlat Agaci. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 188 min. - Turchia, Francia 2018. - Parthénos uscita giovedì 4 ottobre 2018. MYMONETRO L'albero dei frutti selvatici * * * 1/2 - valutazione media: 3,62 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Un padre e un figlio in un grande affresco sulle contraddizioni della Turchia di oggi

di Paola Zonca La Repubblica

Sarebbe ingenuo nascondere che oltre tre ore di film rischiano di scoraggiare lo spettatore non rigorosamente cinefilo. Però sbaglierebbe chi si fermasse davanti alla lunghezza monstre dell'ultimo, ennesimo, capolavoro di Nuri Bilge Ceylan, L'albero dei frutti selvatici, presentato a Cannes 2018 e nelle sale da giovedì. Perché il regista turco di Uzak, Viaggio in Anatolia, Il regno d'inverno (Palma d'oro nel 2014) ancora una volta affascina, confermando la sua estetica fatta di piccole storie, magnifici e drammatici paesaggi che ben si sposano con lo sviluppo narrativo, dialoghi infiniti di impianto teatrale su temi filosofici ed esistenziali (non a caso Cechov è da sempre un punto di riferimento del suo cinema), capacità di sondare in profondità l'animo dei personaggi. Il fulcro di Ahlat Agaci (traduzione "Il pero selvatico") è il rapporto conflittuale tra un figlio e un padre, ma si parla anche di molto altro. Sinan (Dogu Demirkol) è un ventenne che, dopo essersi laureato a Canakkale, città sullo stretto dei Dardanelli, torna nel suo villaggio nell'entroterra, vicino al sito archeologico di Troia e a Gallipoli, per capire cosa fare della sua vita. Vorrebbe essere uno scrittore, anzi un libro lo ha già scritto, ma pubblicarlo non è facile: non ha soldi e nessuno glieli dà. E anche quando riesce nell'impresa, di tasca propria, nessuna copia verrà venduta. Il ragazzo è scorbutico, indisponente, pieno di risentimento per le delusioni e la frustrazione di non saper realizzare se stesso e riempire il vuoto che ha dentro. E soprattutto sfoga la sua rabbia contro il padre Idris (Murat Cemcir), insegnante dedito al gioco d'azzardo che mette continuamente in difficoltà economiche la famiglia. Il suo fallimento si rispecchia in quello del genitore, del quale però in fondo invidia la vitalità, l'attaccamento ai valori autentici della campagna, l'attitudine ad essere sognatore, visionario, indomito, come dimostra l'insistenza a cercare quell'acqua che potrebbe rendere fertile il proprio terreno e che forse non troverà mai. Solo alla fine, la scoperta dell'affetto che Idris prova per lui li riavvicina: e una delle scene più commoventi è quella in cui Sinan trova ripiegata nel portafogli di papà l'unica recensione al suo libro uscita su un giornale locale. La storia semplice e lineare di un microcosmo famigliare (ci sono anche la madre che si è sposata a 16 armi, la sorella minore, i nonni paterni e materni) si trasforma però in un gigantesco affresco della Turchia contemporanea, ancorata alle tradizioni che le nuove generazioni vorrebbero sradicare, senza avere però il coraggio di cambiare o di andarsene lontano. Seguiamo Sinan discutere con gli imam di fede, con lo scrittore di successo di editoria e letteratura, con l'ex fiamma che sta per sposare un ricco gioielliere del ruolo della donna nella società islamica. Ceylan non propina sentenze, solleva soltanto interrogativi, comunicando un senso di smarrimento e di solitudine. Del resto il film è disseminato di rimandi al suicidio, con tutte quelle corde appese agli alberi, il cane che correndo si getta nel canale, gli sguardi attoniti rivolti al fondo del pozzo. Ma poi nulla di clamoroso succede: la vita continua come sempre, con tutte le sue amarezze e malinconie, a sottolineare la realtà difficile di un Paese che non è in grado di assicurare un futuro ai giovani.
Da La Repubblica, 2 ottobre 2018


di Paola Zonca, 2 ottobre 2018

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