La stanza delle meraviglie

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La wonder-city Valutazione 4 stelle su cinque

di vanessa zarastro


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sabato 16 giugno 2018

“La stanza delle meraviglie” è stato definito un film-diorama, è appagante e commovente, una specie di fiaba malinconica raccontata in modo delicato e raffinato. Il regista Todd Haynes è famoso per creare atmosfere particolari e per la sua capacità di trasmetterle. Tanto per citare due suoi film che mi sono piaciuti molto, vorrei ricordare “Carol” del 2015,  con Cate Blanchett e Mara Rooney, che è impregnato di un’atmosfera di grande sensualità, pieno di riflessi urbani quando in città e di foglie riflesse quando in campagna,  e “Lontano da paradiso” del 2002, con la sua attrice-musa Julianne Moore, che è ambientato negli anni ’60 e dove  è dipinta la suburbia e la natura del Connecticut. Qui il regista è alle prese con l’adattamento di un testo di Brian Selznick Haynes.
A New York, una bambina (la rivelazione Millicent Simmonds) e un bambino (Oakes Fegley) cercano entrambi i genitori e sono entrambi sordi, per ragioni diverse. Rose, sordomuta dalla nascita, passa le sue giornate a ritagliare articoli sui giornali che parlavano della mamma attrice, Ben invece passa il suo tempo rovistando tra i cassetti e le carte della madre a cercare indizi che lo conducano a sapere qualcosa di suo padre.
Rose vive con il padre e scappa di casa per cercare la madre, separatasi dal marito - siamo nel 1927 – e che è un’affascinante e nota attrice e sta recitando al Promenade Theater di Broadway. Ben è in cerca di suo padre – siamo esattamente cinquant’anni più tardi - di cui poco si ricorda e del quale sa pochissimo, e tenta di trovare informazioni in una vecchia libreria vicino al Museo di Storia Naturale su Central Park West a Manhattan.
Il film narra le due storie incastrate nel montaggio dei fotogrammi: in bianco e nero con sottofondo di musica sinfonica, la storia della bimba in cerca di quell’affetto che solo il fratello Walter le saprà dare; a colori e accompagnata da musica funky anni ’70 (David Bowie in Space Oddity così canta: «ashes to ashes, funk to funky, Major Tom was just a junkie»), quella storia del bimbo rimasto orfano di madre e alla disperata ricerca di conoscere il padre. Ben è nato e cresciuto a Gunflint in Minnesota, al confine con il Canada, è abituato al freddo e alla neve ma non alla città, specie se questa città si chiama New York. Altrettanto vale per Rose che viene da una zona suburbana ricca del New Jersey, ma non vicina alla metropoli. Così Todd Haynes ci fa scoprire il tessuto urbano e sociale attraverso gli occhi dei bambini, maggiormente aperti non avendo più l’udito. La New York in bianco e nero è una città in fieri, quasi in costruzione, lì si fa spettacolo (i teatri di Broadway) e lì si fa cultura (i Musei e le librerie). Ma negli anni ’70 New York è al massimo del suo splendore, è la più grande città che in qualche modo si può ancora considerare europea, e dove si può trovare massimo di tutto: i migliori direttori d’orchestra (Leonard Bernstein), i migliori locali di jazz (il Village Vangard), i migliori architetti (I Five Architects) al M.O.M.A. e così via.
Ben, scappato dall’ospedale dove è stato ricoverato perché colto da un fulmine che gli ha tolto la possibilità di sentire suoni e voci, prende un pullman, poi un traghetto e alla fine un Railbus che lo fa sbarcare a Harlem, il quartiere nero che lui attraversa senza soggezione. La ricostruzione che fa Haynes è scrupolosa e rispettosa del periodo (gli anni ’70) con le sue musiche e i vestiti colorati e capelli alla moda. Le due storie trovano il loro fulcro nel Museo di Storia Naturale e si sovrappongono a quella di uno splendido cabinet of curiosities, una volta esposto lì.
Il regista va avanti e indietro tra fantasia, sogno (o incubo) e desiderio, con molto garbo e senza appesantire o complicare la storia (le storie) che man mano si dipana fino ad incontrarsi sul finale.
Un ennesimo tributo alla città viene dal suo plastico analogico, detto Panorama, costruito per l’Expo internazionale (New Year World’s Fair) del 1964 voluto dal famoso urban planner Robert Moses e conservato al Queens Museum – centro educativo e museo d’arte fondato nel 1972 all’interno del Flushing Medows Corona Park (che a sua volta è diventato famoso per l’US Open di tennis) - dove convergono, nel finale, tutte le vite incontrate.
I critici di Cannes non sono rimasti entusiasti di questo film. Credo che lo abbiano troppo drasticamente paragonato a Hugo Cabrett, testo dello stesso romanziere, diretto da Martin Scorsese. A me il film ne ha evocati altri, ma soprattutto “A.I.” girato da Martin Scorzese nel 2001, su idea di Stanley Kubrick, dove il piccolo protagonista, in cerca di affetto familiare, si ritrova in una grande metropoli che forse è la vera “stanza delle meraviglie”. Probabilmente “Wonderstruck“ non è il miglior film di Todd Haynes in assoluto, ma vale la pena di vederlo per la sua confezione, per le tecniche delle scene ambientate negli anni ’20, e per le sue ricostruzioni storiche e urbane e degli ambienti museali, che sono veramente degne di nota.

 

 

 

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