Ogni pellicola è un montagna, ed ogni montagna necessita di attrezzi tutti suoi per essere scalata.
Alcune pellicole paiono fornirci già dai primi istanti ogni indizio utile, perché noi le si “scali” adeguatamente, con quest’opera la faccenda si fa complicata.
In un’America satura di atmosfere da guerra fredda, il sipario apre sulla visione di oneste, quanto schematizzate figure umane, lo scenetta rassicurante di quel periodo che incontra il boom economico, ma soffre il maccartismo, in cui la segregazione impera sovrana ed ancor più sovrana è la paura dell’atomica.
In questo minestrone in realtà già visto in miriadi di pellicole, quindi pronto a retoriche di vario tipo, il focus cala su una donna dall’aria mediocre.
Obiettivamente bruttina, impedita nella normalità anche dal suo mutismo, si presterebbe all’immaginario di una vita monotona, e qui cala il primo trabocchetto del regista.
Costei lavora per l’esercito americano, servizi segreti dediti ad esperimenti.
Potrebbe avere già abbandonato del tutto i suoi piaceri sessuali… secondo trabocchetto, nella regolarità delle sue giornate ripetitive vi è sempre spazio per un atto sessuale solitario ma liberatorio e l’acqua della vasca da bagno in cui si immerge tornerà a più riprese come agente vitale.
I “buoni” fanno il loro sporco lavoro, coppie copulano nella freddezza di sensi addormentati da una società che ci tiene all’ipnotismo di massa, uh se ci tiene. I buoni difendono i confini precostituiti di una società impermeabile alla sensibilità, ma fino a quel punto, rimangono pur sempre i rappresentanti dei buoni.
Poi compare lui, il mostro, in una sfacciata ispirazione al film Il Mostro Della Laguna Nera, entra in scena ed obbiettivamente ti si ghiaccia il sangue, nella ricostruzione della sua accurata e selvaggia diversità, ma questa paura dura tre secondi tre, perché appena si incrociano i suoi occhi, a metà tra l’impaurito ed il curioso, è praticamente impossibile non tifare sfegatatamente per lui, che rubato al suo ambiente, oggetto di esperimenti e torture che ne schiaccino il carattere selvaggio, tra piaghe e rantoli ti si blocca in un pezzo di cuore e non si stacca più.
E lei, la bruttina, la mediocre, che per empatia naturale ritrova in lui “l’altro”.
E da timida, riservata, pavida, diventa una guerrigliera senza pudore alcuno, la donna vogliosa di sensualità, in un crescendo narrativo che chiede allo spettatore di far sedere il bimbo, piuttosto che l’adulto in poltrona, perché la favola dark sta cominciando a srotolare tutto il suo vero potenziale ora, trascinando nella sua elegia (che sarà anche epifania) tutti gli esseri sottilmente e silenziosamente segregati di quella società, il vicino omosessuale, i neri appartati, i muti umani ed i muti animali.
Certo si può rimanere freddi davanti a questa operazione narrativa, ma se si ama e conosce un regista, ci si lascia stimolare in questo percorso che era cominciato con un’opera pittorica come Il Labirinto Del Fauno e poi giunta fino ad oggi in questo humus.
E si perdonano alcuni passaggi retorici dovuti, poiché necessari per esacerbarci a puntino.
Nella delicatezza di una storia che è racconto di un amore che va oltre ogni barriera, che se ne frega di ciò che è rassicurante, per obbedire soltanto a ciò che ci divora dolcemente dall’interno, e la forma dell’acqua cosa è? Te lo chiedi per ¾ di film, fino a quando in scena entrano due vibranti gocce di pioggia che si inseguono su un finestrino umido, fino ad incontrarsi, sotto lo sguardo di lei, (e di noi)
…e nella scarpa che lei perde, nell’ultimo abbraccio dei due, mentre i “buoni” giacciono ormai in terra, infine consapevoli di avere incontrato un Dio animale che la loro miopia gli ha impedito di ammirare l’avidità di conoscere.
Due “mostri di dolcezza” si abbracciano ora, in un mare che torna a proteggerli dalla nostra “terrificante disumanità”.
“Frattanto i pesci
Dai quali discendiamo tutti
Assistettero curiosi
Al dramma collettivo
Di questo mondo
Che a loro indubbiamente
Doveva sembrar cattivo
E cominciarono a pensare
Nel loro grande mare” (L.D.)
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