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Martin Provost: «Quello che so di lei? Un film che mi somiglia»

Il regista e sceneggiatore francese racconta il suo ultimo film con Catherine Deneuve e Catherine Frot. Presentato alla 67esima Berlinale e dal 1° giugno al cinema.
di Olivia Fanfani

lunedì 29 maggio 2017 - Incontri

Claire è un'ostetrica appassionata, ama la sua professione e il piccolo ospedale in cui lavora. Per lei far nascere bambini è più di un mestiere, è una missione. Proprio quando le annunciano la chiusura del reparto maternità dove è impegnata da più di vent'anni, si affaccia nella sua vita una vecchia fiamma del padre, Béatrice. Testarda, autentica e profondamente incosciente, la donna piomba come un fulmine a ciel sereno nella vita estremamente lineare della dottoressa, in un crescendo di scontri e richiami ai contrasti passati - è colei per cui il padre di Claire aveva abbandonato la famiglia.

La leggerezza di Béatrice, intenta a fagocitare la vita senza rimorsi, è dichiarata opposizione alla misuratezza di Claire: nel gioco d'azzardo, nella gioia dei peccati di gola, della carne rossa e dell'onnipresente sigaretta. 
Olivia Fanfani

In aggiunta alle preoccupazioni dell'ostetrica per un figlio deciso a rivoluzionarsi la vita, lo stravolgimento tra le corsie asettiche di un grande ospedale (la dimensione umana sostituita dai grandi numeri), Béatrice è scontro salvifico necessario a prendere tutto meno sul serio, un elogio all'edonismo e alla sensualità ironica di chi svicola le consuetudini. Laddove è lei la fugitive proustiana come antitesi e contrapposizione de la prisonnière (qui delle convenzioni), svela la dolorosa condizione - e l'acutezza - dell'esilio volontario. 

Da Virgilio a Joyce, dall'Odissea alla Commedia dantesca, da Baudelaire a Proust. La letteratura è piena di evasioni fisiche o mentali, di fughe e intimi pellegrinaggi, di forme in movimento piene di una sofferenza inaspettata, impregnate di precetti universali, e spinte al cambiamento per cui è necessario sottrarsi, evitando di lasciarsi coinvolgere, di diventare complici. La rivoluzionaria Béatrice, privando la fuga della sua valenza negativa, ne sottolinea la dignità, nelle distanze ostinate, come soluzione alle ricadute. La sfrontatezza si fonde con la caparbietà nel ritratto irrazionale del legame tra vita e morte, in un crocevia che è evoluzione intima del perdono. 

C'è di tutto nel film di Provost, la commozione e la risata, uno sguardo malinconico al cambiamento, il richiamo ruvido dei tempi andati, quello dei rapporti onesti, umani. C'è la vita stessa e la sua negazione nella relazione di Claire con il camionista Paul, nella malattia di Béatrice, tornata dopo una vita in fuga dai legami. L'approdo al cospetto del suo opposto rigoroso, il suo conto in sospeso, la sua - pur sempre imprescindibile - complicità. 


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Un'immagine dal film Quello che so di lei.
Un'immagine dal film Quello che so di lei.
Un'immagine dal film Quello che so di lei.
L'INTERVISTA

In Quello che so di lei ti confronti con una storia che nasce da un'esperienza personale. Hai più volte affermato di dovere la tua stessa vita a un'ostetrica, da qui l'esigenza di un film che ricalcasse l'aspetto più umano della professione. Com'è nata l'idea? 
Non conoscevo veramente bene questa storia, mi era stata raccontata fin da quando ho memoria, ma mai in maniera dettagliata. Non sapevo quanto fosse stata grave la mia situazione: quando sono nato c'è stato un importante problema di sangue, il mio non andava bene. Avevo bisogno di una trasfusione grossa e mio padre ha cercato dappertutto qualcuno che avesse il mio stesso gruppo sanguigno. Alla fine è stata l'ostetrica che mi ha fatto nascere a donare il suo perché idonea alla trasfusione. A casa poi l'episodio è stato sorvolato come un piccolo incidente. Soltanto due anni fa mi è stata raccontata da mia madre la storia nella sua tragicità. Rimasto sgomento nel conoscere la "vera verità", ho chiamato l'ospedale per capire chi fosse questa donna, però gli archivi degli ospedali vengono distrutti ogni vent'anni. Non era quindi possibile rintracciarla, ma io sentivo in qualche modo che dovevo pagare quasi un debito di riconoscenza e di sopravvivenza, oppure rendere omaggio a questa donna incredibile. Da qui, da questa consapevolezza, ho preso spunto per il film. Volevo mostrare la capacità di queste donne di aprire le porte alla vita, senza omettere la morte. 

Possiamo quindi affermare che le devi la vita...
Se non fosse stato per l'ostetrica adesso rischierei di avere un grave deficit intellettuale o motorio. Ma il fatto davvero sorprendente è accaduto durante le riprese del film: nel mese di giugno stavo lavorando ai titoli di coda e mi serviva un mio atto di nascita. Mi sono recato al comune e lì, sull'atto, ho trovato il nome di quella donna. Non potevo crederci, quella stessa ostetrica, dopo avermi fatto la trasfusione di sangue, mi ha registrato all'anagrafe della città in cui sono nato, Brest. Ivonne Andres, ostetrica, registrava Martin Provost alle 11.45, dopo il lungo lasso di tempo della trasfusione. [Martin nasceva alle 1.15 del mattino, nda

Sei quindi riuscito a rintracciare Ivonne? 
Quello che so di lei in Francia è uscito circa tre mesi fa, e dopo un'intervista su Teleramà [un giornale francese, nda] ho ricevuto una mail dai sei nipoti di questa signora. Confermavano tutto quello che avevo scoperto sul suo conto, sottolineando quanto di straordinario c'era in lei. Purtroppo mi hanno anche informato che è morta nel 1974, senza essersi mai sposata. Sempre dedita e appassionata al suo lavoro e alle donne che hanno avuto il privilegio d'incontrarla durante il parto.

Il film è un duetto prettamente al femminile. Due donne con personalità opposte si confrontano e scontrano dopo anni di silenzio. Come ti sei rapportato alla scrittura di personaggi così diversi? 
Volevo raccontare la storia di una donna che apriva le porte della vita e della morte, che - per me - pur essendo opposte, sono due cose molto vicine. A volte coincidono nello stesso gesto. Però sapevo di non volere un dramma. Tra l'altro, è la prima sceneggiatura che scrivo da solo - in genere coscrivo - e volevo fare un film che fosse un po' come me, che mi assomigliasse. Che fosse disperato ma allegro al tempo stesso. Pieno di vita, in tutte le sue sfaccettature e declinazioni. Avendo questo personaggio della Sage Femme, era necessario un personaggio da contrapporle. La vita è spesso contrapposizione. Volevo qualcuno che fosse il più insopportabile possibile, come certe donne lo sono, o almeno, certe donne che ho avuto nella mia vita e che ho amato enormemente nella loro insopportabilità. [ride, nda

Hai scritto pensando a Catherine Deneuve, Catherine Frot e Olivier Gourmet? 
Avevo ben chiaro il cast, fin dal principio. La cosa meravigliosa è stata scoprire che tutti e tre gli attori che volevo accettavano il ruolo. Sono solito incontrare gli interpreti prima di scrivere il film, in questo caso non era stato possibile, e a dire il vero avevo un po' di timore che non accettassero. Catherine Frot mi è apparsa in sogno, molte delle idee per i miei film nascono durante la notte. In questo caso, Catherine era in piedi di fronte a me e, con dolcezza infinita, tesa nel gesto d'afferrarmi, si avvicinava come per darmi la vita.
In epoca non sospetta l'avevo già cercata per proporle il ruolo di Simone de Beauvoir nel film Violette, ma lei purtroppo non aveva potuto accettare perché già impegnata su un altro set. Dopo aver visto il film mi fece sapere di aver rimpianto molto non aver potuto accettare quel ruolo. Un'attrice che ti dice una cosa del genere è un qualcosa che ti rimane impresso! Dunque Catherine Deneuve: per quanto riguarda lei era da moltissimo che mi sarebbe piaciuto proporle un ruolo che fosse alla sua altezza. Per il suo personaggio, infatti, mi sono ispirato ad una moltitudine di donne, sempre con la consapevolezza che fosse lei quella che avrei voluto.


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Un'immagine dal film Quello che so di lei.
Il regista Martin Provost.
Un'immagine dal film Quello che so di lei.

La lunga carriera di Catherine Deneuve e l'esperienza dell'attrice, hanno influito in qualche modo sulle tue scelte registiche?
È stata un'affascinante dicotomia stilistica quella che ha coinvolto da una parte l'impostazione rigorosa mia e di Catherine Frot, e quella invece più immediata di Catherine Deneuve. Io provengo dall'ambito teatrale, come Frot. Questo ha determinato un approccio molto rigido, con un'applicazione metodica allo studio e un'attenta preparazione. La Deneuve completamente il contrario. Per lei è tutto improvvisazione, istantanea, deve cogliere l'attimo. Chiaramente ho dovuto adattarmi. Son contento che sia stato così perché credo che questo abbia dato molto in termini d'immediatezza al film. Da parte mia ho dovuto lasciare andare certi miei condizionamenti per esserle più vicino, altrimenti non avremmo potuto lavorare. Era molto interessante, ad esempio, notare come dopo aver impostato la scena e le inquadrature, aver detto agli attori dove posizionarsi e come, arrivasse lei con molta sicurezza a mettere in discussione tutto, proponendo un'alternativa in base al suo proprio sentire la scena. È questo che a mio avviso ha dato più veridicità e realismo al film. So per certo che è una cosa non sempre valida, ma almeno in questo caso penso sia stata fondamentale. 

Ripercorrendo la tua filmografia sembra esserci un filo conduttore, tutti i tuoi personaggi devono confrontarsi con l'altro, nuovo e sconosciuto. Così era per Seraphine e per la de Beauvoir di Violette. Hai mai pensato a una certa continuità narrativa nei tuoi lavori?
È una questione su cui mi sono soffermato anch'io più volte. Credo esista un fil rouge che collega tutte le mie opere, e sono molto felice che qualcun altro lo abbia notato. Il tema dei miei film è sempre una realtà stagnante, in stallo, che incontra nell'altro, nell'estraneo, un punto di rottura che genera una sorta di rinascita. Principali protagoniste sono quelle donne che in qualche modo se la cavano, riuscendo a realizzare se stesse o piuttosto a sublimare la loro condizione. Avviene in Quello che so di lei e in misura un po' diversa in Seraphine, dove il concetto di rinascita è mostrato con maggior forza. In questi termini l'apice è raggiunto, però, con un film che in Italia non ha mai trovato distribuzione: Ou va la nuit. Qui, la protagonista [Yolande Moreau, nda] è una donna che subisce le angherie di un marito violento, arrivando a ucciderlo per portare a termine la sua personale resurrezione. A conti fatti, la linea narrativa può essere ricondotta al tema della nascita o della rinascita. Forse perché in un certo senso, inconsciamente, credo nella veridicità di una potenziale resurrezione in vita. Penso che ognuno di noi possa avere più vite, con impegno e dedizione - presa d'atto - è possibile cambiare. 

Ne nasce una profonda riflessione sul valore dei rapporti umani. L'utilizzo massivo delle nuove tecnologie - ad esempio in ambiti delicati come il reparto maternità di un ospedale - rischia secondo te di annullare e compromettere l'intimità sincera che si crea tra gli individui?
A mio parere le relazioni umane in ogni epoca sono sempre le stesse, anche se possono cambiare i tempi e le modalità degli incontri. Tutti abbiamo sempre qualcosa da scoprire che la statistica e l'automazione non sono in grado di sostituire. Un valore aggiunto spesso viene identificato con l'amore, ma non è amore - o meglio - non si tratta sempre e solo d'amore. In questo film in particolare - forse quello che giudico il mio più maturo - cerco d'interrogarmi, di cercare di capire le dinamiche su cui si strutturano i rapporti umani. Un aspetto su cui ho voluto concentrarmi molto, e che trapela dal film, è proprio la problematica che lega le persone al perdono, al saper perdonare. Se nei rapporti tra le persone ci fosse questa capacità, tutto cambierebbe molto. Un'idea di redenzione, che non per forza si concretizza nella rimozione. Dimenticare è un'altra cosa, qui azzarderei un esternare un non detto. L'omissione spesso rischia di gravare e appesantire uno sguardo già di per sé fossilizzato, miope. Il confronto è anche occasione per sentire l'amore diversamente, come qualcosa da cui non aspettarsi niente in cambio. 


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