Il filo nascosto

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La vita ( e l'emozione) sono altrove. Valutazione 2 stelle su cinque

di MariaTeresa


Feedback: 210 | altri commenti e recensioni di MariaTeresa
lunedì 20 agosto 2018

Che cos'è un capolavoro?
Un'opera formalmente perfetta? Un lavoro ineccepibile e magistralmente costruito? Per me un capolavoro è tutto ciò che mi risuona dentro e mi emoziona.
Nel caso de "Il filo nascosto", opera acclamata da molti, non solo non v'è immedesimazione possibile per lo spettatore ma nemmeno  mai vibra in chi guarda un filo di umana pietas per anime così drammaticamente imprigionate in blocchi e nevrosi. 
Cosa ci comunica questo film? Quale il messaggio? 
Che l'amore è patologia o meglio insondabile incontro di patologie diverse? Che ogni rapporto è perfetto a modo proprio ed in modo incomprensibile  ad altri ? Che scaltrezza e folle disincanto, lucidità ed ossessione sono essi stessi "rapporto"? Manipolare è forse amare? Subire è amare? Indurre è costruire? 
Aver bisogno non è desiderare ed aperture e morbidezze o sono intrinseche e generosamente offerte e svelate o non sono.
Quanto può amare chi è costretto a soffrire per sentire e chi approfitta di tale devianza? E quanto, stilisticamente parlando, può essere credibile un personaggio che irrompe nella vita del protagonista come un raggio di sole, scarmigliato, irriverente e selvatico, che colpisce per innocenza e ruvida genuinità, salvifico come un balsamo e onestamente cristallino fino alla goffaggine e finisce col trasformarsi(quasi)in angelo della morte svelando un'anima più dannata e noir del con-dannato e nerissimo protagonista? 
Immenso protagonista senza ombra di dubbio nella magistrale interpretazione di un inarrivabile Daniel Day-Lewis scarnificato e puro fino all'essenza. Recitazione di livelli altissimi che procede per sottrazione piuttosto che per aggiunte, mai ridondante o echeggiante, sublime nella assenza di manierismi ed artifici, che comunica col non comunicato, e che con il non detto trama allo spettatore la sua rete fitta, incalzante e captante. Interprete supremo che non fa ma è il film stesso e che resiste perfino ad un doppiaggio a tratti e forse volutamente inappropriato che rende "l'umanità " del protagonista ancora più intollerabile e fuori contesto, odiosa nel suo trattenere picchi di fiato e di vita.
Opera che si presta a svariate e molteplici letture e che comunica di volta in volta attraverso sfumature e linguaggi diversi (da vedere e da rivedere se non si resta abbattuti dalla lentezza e l'inazione esasperanti,  da un respiro d'insieme claustrofobico a tratti ed a tratti volutamente mortificante e da un escamotage risolutore che non rende giustizia alla raffinatezza delle premessea) ma, forse proprio per questo, opera che resta lontana e straniante. Lo spettatore può solo guardare, non si parteggia, non si spera, non ci si auspica, non si desidera, non si brama nemmeno quell'azione che ben presto si intuisce, non arriverà mai. Si resta dal di qua; E mai ci sarà risposta all'unica domanda possibile al di là di ogni sospensione di giudizio o classificazione: chi davvero ha agito sull'altro? Chi conduce a sé? 
La mia simpatia va tutta al contenuto  ed imperturbabile dottore probabilmente avvezzo alle bizzarrie del bel mondo al quale solo marginalmente appartiene. È lui lo sguardo "altro" del film, è lui che con la sua schiettezza e concretezza scientifica non esita a conferire all'umile cameriera ,compagna di fatto del nevrotico stilista, quel ruolo sociale più che affettivo che per tutto il film le viene malignamente negato ma che i fatti senza ombra di dubbio sanciscono, destando con l'inaspettato appellativo stupore e malcelata stizza nell'algida e ieratica sorella del protagonista . È lui, medico normale ma non ordinario, del tutto estraneo alla vicenda narrata e ben lontano dall'essere soggiogato da fascinazioni, manie e nevrosi che piuttosto esamina, che non a caso raccoglie intime confidenze e velate allusioni della imprevedibile musa ormai sempre più dentro la storia. Storia di cui la donna condivide ormai stranezze e tensioni e su cui poggia uno sguardo sempre più morbido, giustificatorio e acritico. Donna alla fine cardine portante di quella precaria impalcatura umana e familiare che dall'esterno non è riuscita né a scalfire né a smussare. È lui  che sentiamo un po' noi nel suo sguardo turbato da investigatore incuriosito ma mai sedotto e soprattutto  non ancora assuefatto alle insospettabili  morbosità dell'animo umano. Emblematica la scena finale ....gruppo di famiglia allargata che racconta di un "amore" a suo modo funzionante e che diventa "carne e futuro".... nota per nulla melensa ma definirei quasi inquietante nel decretare la legittimità  di un equilibrio ossimoricamente fondato sul reciproco e condiviso squilibrio mentale, di una complicità malata che assurge a ruolo di rapporto solo in virtù del perturbante evento non fatale ma umanamente prodotto. Anche qui ritorna uno sguardo neutro e distante....una vaghezza di cose imperfette e stonate. La vita è altrove. La vita è altro. E noi restiamo lontani ed intatti.

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