laurence316
|
sabato 15 luglio 2017
|
favola attuale sul rispetto per tutti i viventi
|
|
|
|
Dopo il buon successo di Snowpiercer (suo primo film in lingua inglese), Bong Joon-ho, una volta ottenuti da Netflix 50 milioni di budget e piena libertà creativa (più che una rarità nel panorama dei blockbuster odierni), ritorna sotto i riflettori con questo suo nuovo film che lo conferma quale uno dei più interessanti registi in circolazione.
Okja è un emozionante parabola di rispetto per la natura e per tutti gli esseri viventi che la popolano, che parte dal classico leitmotiv dell’amicizia tra una bambina e una creatura fantastica che diventerà irrimediabilmente la sua miglior amica (inevitabile che il tutto riporti alla memoria l’E.
[+]
Dopo il buon successo di Snowpiercer (suo primo film in lingua inglese), Bong Joon-ho, una volta ottenuti da Netflix 50 milioni di budget e piena libertà creativa (più che una rarità nel panorama dei blockbuster odierni), ritorna sotto i riflettori con questo suo nuovo film che lo conferma quale uno dei più interessanti registi in circolazione.
Okja è un emozionante parabola di rispetto per la natura e per tutti gli esseri viventi che la popolano, che parte dal classico leitmotiv dell’amicizia tra una bambina e una creatura fantastica che diventerà irrimediabilmente la sua miglior amica (inevitabile che il tutto riporti alla memoria l’E.T. di Spielberg) per poi svilupparlo, però, in modi spesso molto originali. A partire dagli scarti di tono tipici della filmografia di Bong ma della cinematografia coreana in genere che talvolta lo spettatore occidentale potrà magari trovare piuttosto spiazzanti, ma che aggiungono quel qualcosa in più al film e lo rendono alquanto inclassificabile ma soprattutto squisitamente imprevedibile: si passa tranquillamente dai toni avventurosi dei primi venti minuti al dramma, dall’azione più ipercinetica dell’inseguimento tra camion all’umorismo slapstick, dalla satira più sferzante agli sprazzi quasi horror ma soprattutto tragici dell’ultima parte, andando a comporre un mosaico eterogeneo assolutamente affascinante che la sicura mano del regista, riesce, incredibilmente, a tenere unito e compatto.
Nonostante la familiarità che ci si troverà ad avere con il soggetto di partenza, quindi, alla fine il film non mancherà di sorprendere con svolte narrative del tutto inaspettate. Dal punto di vista meramente tecnico, poi, non si può avere nulla da eccepire: la fotografia, il montaggio, gli effetti speciali, sono tutti ottimi. E anche gli attori (anche se talvolta Gyllenhall gigioneggia un po’ troppo).
Insomma, Okja è uno dei più curiosi film della stagione e un po’ dispiace che non sia di quelli distribuiti nelle sale, ma una produzione da poter gustare solamente su piccolo schermo. Certo, probabilmente non è per tutti ma chiunque sia stanco dei soliti blockbuster omologati e fatti in serie che infestano il cinema mainstream non potrà che trovarlo come una rigenerante boccata d’aria fresca nonché la prova che è ancora possibile produrre film a medio-alto budget d’autore che oltre al puro intrattenimento siano in grado anche di trasmettere un messaggio.
Presentato in anteprima a Cannes (dove ha ricevuto una standing ovation di oltre 4 minuti), è disponibile su Netflix a partire dal 28 giugno 2017. Un piccolo consiglio: non spegnere il televisore prima della conclusione dei titoli di coda.
[-]
|
|
[+] lascia un commento a laurence316 »
[ - ] lascia un commento a laurence316 »
|
|
d'accordo? |
|
frenky 90
|
mercoledì 1 luglio 2020
|
il coraggio della normalità
|
|
|
|
Due cose, due. 1: Riscoprire Bong Joon Ho nel 2020 dopo la scorpacciata di Oscar è da occidentale ottuso, lo so, ma recuperare perle da un sacchetto bucato e tornare sui propri passi per ritrovare un sentiero perduto non hanno mai costituito reato quindi facciamolo, senza vergogna. 2: Guardare questo film addentando un succulento cheeseburger con bacon mi ha fatto sentire in colpa più degli spot della Bocelli Foundation quindi non fatelo, per carità. Veniamo all’opera. Recuperare questa ottima tragi-commedia kitch e sfarzosa è davvero d’uopo quindi mai occasione fu più gradita nel ripercorrere a passo di gambero la filmografia del Maestro (adesso tocca chiamarlo così!) del Paese che ormai non è più una sorpresa nel nobile campo della settima arte.
[+]
Due cose, due. 1: Riscoprire Bong Joon Ho nel 2020 dopo la scorpacciata di Oscar è da occidentale ottuso, lo so, ma recuperare perle da un sacchetto bucato e tornare sui propri passi per ritrovare un sentiero perduto non hanno mai costituito reato quindi facciamolo, senza vergogna. 2: Guardare questo film addentando un succulento cheeseburger con bacon mi ha fatto sentire in colpa più degli spot della Bocelli Foundation quindi non fatelo, per carità. Veniamo all’opera. Recuperare questa ottima tragi-commedia kitch e sfarzosa è davvero d’uopo quindi mai occasione fu più gradita nel ripercorrere a passo di gambero la filmografia del Maestro (adesso tocca chiamarlo così!) del Paese che ormai non è più una sorpresa nel nobile campo della settima arte. Come non piazzare da subito l’occhio di bue attorno al deus dietro la macchina che, come sempre, inventa, scrive e dirige la sua creatura con rimandi più o meno espliciti al Gilliam soprattutto di Brazil e perfino al Landis dei Blues Brothers nella scena della distruzione del negozio sotterraneo e in quella “nascosta” dopo i titoli di coda in cui Paul Dano viene accolto all’uscita dal carcere dal figliol prodigo K, con dinamiche simili a quelle con cui il mitico Dan Akroyd accoglieva il mitico John Belushi. Immaginifica inventiva e illimitati mezzi tecnici che bisogna dire non sempre hanno colto nel segno (Memories of murder, Snowpiercer) ma che qui al servizio della satira di costume che non risparmia nessuno, non manca la scena dell’ambientalista ridicolizzato per l’impatto zero, centrano il bersaglio con la corretta misura di follia e retorica, chiasso e profonda riflessione, appunto, feroce denuncia e onestà intellettuale. Il soggetto del cineasta sudcoreano, aiutato alla sceneggiatura dal giornalista gallese Jon Ronson de “L’uomo che fissa le capre”, miscela con gusto la giusta dose di Walt Disney con la crudezza tipica della cinematografia di un popolo che, ricordiamolo, da sempre è abituato a convivere con la violenza, che Bong stigmatizza con la sua proverbiale leggerezza, diventata ormai il marchio di fabbrica del suo cinema. Non è nient’altro che l’ironia difatti forse il vero punto di forza della poetica dell’autore, che asciuga il sangue da uomini e super-animali con la garza della risata a denti stretti cui costringe il suo spettatore nelle scene più accese. Qualità, quest’ultima, che non può non avvicinarlo nell’immaginario comune al miglior Tarantino del quale però mai “copia” il modus operandi strizzando eccessivamente l’occhio al fagocitante universo nordamericano, personificando semmai uno stile con l’inchiostro a china di una firma unica nel panorama filmico contemporaneo. Proprio quando stiamo per avvicinare il palmo della mano agli occhi o ritraiamo la testa indietro per il senso di disagio e la paura del bieco splatter situazionista il nostro piazza uno sportello in faccia a un cartoonistico funzionario, riempiendo, letteralmente, di cacca lui e i nostri cattivi pensieri, se ci pensate come non dissimilmente accade con il Gianni Morandi del climax di Parasite. Vi sono poi i colpi di genio veri, tali per l’originalità dell’assunto, perfettamente esemplificati dalla trovata dei petali di fiore dei “terroristi gentili”, qualcosa di davvero mai visto innanzi a cui non possono che scrosciare gli applausi. Qualità, parola detta e da ripetere che, e veniamo all’analisi “tecnica”, diventa fiore all’occhiello nella ricchezza delle sequenze registiche qui dell’inseguimento a piedi del camion da parte della piccola Mija, che diventa un action movie del livello del primo De Palma, e si mette a servizio dell’immaginazione, parola detta e da ripetere, in quella dell’animale in catene che non si limita al facile coinvolgimento emotivo del pianto della mamma di Dumbo ma azzarda una soggettiva in cui i suoi occhi tramutano le croci di un cimitero nelle palazzine di New York, forse la più vera e struggente delle immagini del film. Aiutato dall’esperta fotografia dell’apprezzato Darius Khondji, il dominatore assoluto della notte degli Oscar 2020 mette in bella mostra il suo talento cristallino non sprecando un centesimo dei 50 milioni di dollari della produzione con, in ultimo, anche un garbato uso della CGI. Perfettamente inserite nel contesto sono le riuscite interpretazioni teatrali e burlesche del cast di lingua inglese con la ricorrente Tilda Swinton e l’irresistibile “cattivo” di Jake Gyllenhaal che paiono fare il paio con lo stile interpretativo tipico degli attori sudcoreani, fra cui per una volta spicca l’assenza di Song Kang Ho, che peraltro perfettamente si integra col visionario taglio di Joon Ho. La favola ha un lieto fine mascherato espresso con gentile maniera senza sbandierare a tutti i costi la bandiera del vegetarianesimo, lasciandoti dentro la commozione e la gioia dell’essere stato intrattenuto, semplicemente, da una bella storia. Cos’altro desiderare dal buio della sala?
[-]
|
|
[+] lascia un commento a frenky 90 »
[ - ] lascia un commento a frenky 90 »
|
|
d'accordo? |
|
|