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Happy End e Haneke: un significativo esempio di cinema europeo

L'autore si candida a narratore collettivo delle ipocrisie borghesi del Continente. Ora al cinema.
di Roy Menarini

Happy End

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Jean-Louis Trintignant Altri nomi: (J.L. Trintignant / Jean Louis Trintignant ) 11 dicembre 1930, Piolenc (Francia) - 17 Giugno 2022, Uzès (Francia). Nel film di Michael Haneke Happy End.
sabato 2 dicembre 2017 - Focus

Se dovessimo riassumere la ricezione che Happy End (guarda la video recensione) ha avuto dalla critica, si potrebbe spiegare in questo modo: nessuno nega a Michael Haneke l'onore delle armi e la capacità di fare film di tutto rispetto, ma i temi e le metafore sono le medesime di sempre. Il rischio, insomma, è quello della ripetizione. Ecco, Happy End è quello che si direbbe un caso di scuola per la critica autoriale. Non c'è possibilità di errore, infatti, quanto alla definizione di autore per Michael Haneke. Difficile immaginare qualcuno che possa discutere l'autonomia espressiva e la completa responsabilità estetica che Haneke prende rispetto ai suoi film, anche dal punto di vista della scrittura e creazione degli stessi.

È dunque dentro l'autorialità stessa che i film di Haneke vengono letti, il che significa che ogni suo film deve prima di tutto fare i conti con le altre sue opere, comprese quelle maggiori e più significative della sua carriera.
Roy Menarini

È più complicato, per la critica, estrarre un film come Happy End e trasferirlo semplicemente alla produzione contemporanea, per capire se - al di là delle costanti del regista - si trovi qualcosa di interessante per il cinema di oggi o se faccia parte di un più ampio contesto. Di qui, la facile delusione dei commentatori.


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In foto una scena del film Happy End.
In foto una scena del film Happy End.
In foto una scena del film Happy End.

Sarebbe interessante inoltrarsi in sentieri meno battuti. Anzitutto, l'Haneke autore si è candidato ad essere un significativo esempio di cineasta europeo a tutti gli effetti. Si sa che la storia del cinema europeo è infinitamente più frammentata e meno compatta di quella statunitense, e del resto solo di recente l'Europa unita si è data strutture comunitarie (non prive di emorragie improvvise, come la Brexit ci ha insegnato). Eppure, proprio nel cinema contemporaneo - spesso dominato dal prevalere delle cinematografie nazionali - alcuni registi come Haneke si sono candidati a un respiro comunitario. Girando in Francia (La pianista, Niente da nascondere), in Germania (Il nastro bianco), in Usa (il remake di Funny Games), al confine di Calais (quest'ultimo), oltre che ovviamente in Austria, l'autore nato a Monaco di Baviera ma cresciuto a Vienna si è candidato a narratore collettivo delle ipocrisie borghesi del Continente e del nostro mutato rapporto psicologico con le immagini e con la violenza (vera ossessione di Haneke).

In questi anni, pur vagando meno tra i Paesi occidentali, anche i fratelli Dardenne si sono sempre più posti come autori in grado di osservare e restituire le criticità del neoliberismo e delle dinamiche di esclusione nella nuova Europa del Nord.
Roy Menarini

E si potrebbero aggiungere Cristian Mungiu, Maren Ade e altri registi che inseguono i loro personaggi in giro per il Continente e battono sullo stesso tasto: lo spappolamento del tessuto lavorativo, l'inautenticità della globalizzazione contrapposta ai muri verso i migranti, l'aggressione alla vita privata da parte della società esterna e delle sue ingiustizie, le autocensure delle classi agiate rispetto a quanto sta avvenendo.

In questo senso, Happy End sembra in sintonia, oltre che con la filmografia di Haneke (che fa di tutto per enfatizzare la coerenza del suo universo narrativo, autocitando Amour), anche con certe dinamiche molto vivaci e interessanti del cinema d'autore europeo. Insomma talvolta - per capire meglio il valore di un film - è meglio strapparlo alla filmografia interna e contestualizzarlo nei piccoli ma significativi sommovimenti del cinema in senso lato.


RECENSIONE

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