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Huck Finn diventa Principe Azzurro a Settant'anni Valutazione 3 stelle su cinque

di francesca meneghetti


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mercoledì 27 settembre 2017

La popolazione mondiale sta invecchiando, e ciò vale anche per la fauna nutrita degli attori, che, da brave pantere grigie, restano sulla breccia a tempo indefinito. Lontani i tempi della Divina Greta, che lasciò le scene a soli 36 anni (per salvare l’immagine della perfezione giovanile). Ora nessuno si vuole tirare da parte superati i 60 (a parte quanti ambiscono alla pensione in ben altri contesti lavorativi), e il pubblico, gratificato da questo comune procedere avanti negli anni, colloca nel mercato cinematografico una richiesta: cerca storie in cui riconoscersi, ma collocate in una cornice possibilmente consolatoria, non senza un pizzico di ironia. La vita gli ha già riservato tanti drammi e tante brutte emozioni che non desidera certo ritrovarli in un film. Perciò una commedia, magari un po’ frizzantina, alla maniera francese, che racconti storie della terza età senza farsi carico dei gravi problemi del mondo ha alte possibilità di successo. La critica ha sempre trattato in maniera sprezzante tanto la letteratura quanto il cinema di carattere consolatorio. Sta di fatto che queste opere, specie in certi periodi, rispondono a un bisogno reale e potrebbero dirsi gramscianamente naziona-popolari.  Una lunga premessa per introdurre un film che risponde a questi requisiti e che si ambienta in una Londra tanto ideale quanto artificiale: ma pittoresca, verde, idilliaca (se si esclude la presenza di pescicani immobiliaristi), lontana dagli attentati terroristici, dalla stessa metropolitana, priva di quella gente di colore che si trova ovunque nella capitale inglese. Chi ha avuto modo di esplorare la zona settentrionale di Londra (il parco di Hampstead, Hampstead High Street, Heath Street, Heath Road, Holly Bush Passage, Church Row per finire con lo splendido Highgate Cemetery) rivede volentieri quei posti, anzi li ritrova ancora più belli, grazie a un opportuno lavoro di collage. Può ritrovare anche quello spirito selvaggio che è alla base dei giardini all’inglese e di molta narrativa. Lo stesso Donald, protagonista maschile, è una sorta di Huckleberry Finn trapiantato in Hampstead e la sua battaglia legale per restare a vivere nella sua baracca appassiona i seguaci del mito del buon selvaggio, senza per altro politicizzare troppo lo scontro con le società immobiliari, anche se è solito visitare la tomba di Carlo Marx all’Highgate Cemetery. I problemi reali di natura economica sono molto sfumati. Il focus è sulla storia, al limite dell’incredibile, ma in questo caso rispondente alla realtà (tranne nelle conclusioni), e condita dalla romantica e improbabile love story tra Donald ed Emily (Diane Keaton, che fa il verso a se stessa, indossando gli abiti anni ’70  di Io e Annie). Harry Hallowes, l’uomo vero che condusse una battaglia legale per difendere la propria baracca,  e ottenne per usucapione il riconoscimento della proprietà, si limitò a vivere nel suo angolino nel parco di Athlone House fino alla morte, lasciando il terreno, valutato con cifre astronomiche (si parla, come ridere, di due o tre milioni di sterline) ad associazioni che tutelano gli homeless. Donald invece trasferisce la baracca su una chiatta e viaggia lungo il Tamigi per ritrovare la sua bella, che è stata costretta a cedere l’appartamento di Heath Street a causa dei debiti e ha comprato una “casetta”  lungo il fiume (che si scopre essere una dependance di Cliveden House, presso Maidenhead: un posto fantastico). Particolari che denotano scarso realismo e propensione alla favola bella. Solo che in quelle dei fratelli Grimm il Principe azzurro è un bellissimo adolescente. Qui un ciccione irlandese di settanta. Ma ci si ride sopra, così come quando Emily va a trovare la tomba del marito, ma per prenderla, dolorosamente a calci, o come quando i due innamorati consumano un picnic nel medesimo Highgate Cemetery, tra improbabili fiordalisi.
Non si può definire un capolavoro, ma un prodotto industriale confezionato appositamente per un certo pubblico. Si consuma volentieri come Quattro salti in padella. Dopo tutto non sempre si vuole o si può avere il capolavoro di un Masterchef.

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