Dunkirk

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Dunkirk, una dimensione sospesa Valutazione 4 stelle su cinque

di Fabal


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domenica 3 settembre 2017

Colpi di artiglieria e raffiche di mitra introducono il cielo plumbeo di Dunkirk alla fine di maggio del ’40, dove quasi 400.000 soldati inglesi e francesi sono rimasti accerchiati dall’avanzata tedesca . La gigantesca spiaggia di sabbia finissima contraddice immediatamente lo stretto molo in cui le truppe ammassate cercano il reimbarco, disposte in file fittissime che avanzano a una lentezza esasperante, sotto il fuoco degli Junker 87 e le loro micidiali sirene. E’ necessario un salvataggio dalla spiaggia, o a Dunkirk si rischia il massacro: per questo motivo anche le imbarcazioni civili salpano dai porti della Gran Bretagna per attraversare la Manica e recuperare quanti più compatrioti possibili, affinché avvenga il cosiddetto “miracolo di Dunkirk”. Quasi i tre quarti dei soldati riusciranno a rimpatriare, a bordo di yacht, pescherecci, barche a vela o qualsiasi cosa che galleggi. A proteggere dal cielo questa disperata operazione le strette virate degli Spitfire guidati dai piloti della R.A.F.

Sempre ambizioso e mai banale Nolan, anche in un film dove l’obbligo del realismo storico rischierebbe di ingabbiarlo. Qui si parla di guerra e di guerra vissuta, e la licenza del visionario, per forza di cose, non può essere quella diInception o Interstellar, capolavori che dalla meditazione sullo spazio – tempo avevano spinto il genere sci-fi oltre i limiti del cinema tradizionale. Ma Dunkirk è storia, è tecnica militare, è geografia ben delimitata: il cinema di guerra può essere infedele, poco credibile o persino offensivo se quella realtà storica da cui prende spunto venisse troppo distorta da una licenza poetica irrispettosa.

Eppure Nolan accontenta tutti. E lo fa con una sintesi perfetta.

Fin da subito - e per subito intendo dai primissimi fotogrammi – Dunkirk appare in una dimensione sospesa, su cui domina un cielo plumbeo e una persistente foschia che potrebbe ben circondare una città invisibile. O potrebbe, chissà, rappresentare l’atmosfera di un incubo notturno di un reduce, in cui lo scenario leggermente sfumato, distorto, e soprattutto frammentato passa in secondo piano rispetto a un sonoro aggressivo fatto di boati, raffiche improvvise, corazze metalliche continuamente perforate.

Senza che nulla di tutto ciò vada minimamente a intaccare l’intrinseco realismo che si pretende da Dunkirk; un realismo anch’esso inedito, crudo ed elegante allo stesso tempo, che non si compiace del macabro e non cede alla tentazione dell’iper-realismo che ha reso celebre i primi minuti di Salvate il soldato Ryan, mostrando quegli arti mozzati e corpi squartati, quel sangue a fiumi, divenuti poi una costante nel cinema più recente. Ma poiché di cruento ne vediamo ormai fin troppo e non solo nei film di guerra -per l’abuso dell’hard boiled nel thriller, losplatter nell’horror e così via – saggiamente Nolan non indugia su strazianti scene di soldati feriti e corpi martoriati.

Preferisce, invece, affidarsi al panico del suono, in cui un esercito nemico che non vediamo mai spara da oltre la città invisibile, senza che né i soldati protagonisti né gli spettatori capiscano mai la provenienza dei colpi. Tranne quando, con ancor più prepotenza sonora, la picchiata degli Stuka è invece precisa, inesorabile. Oppure quando il siluro di un U Boot causa un naufragio notturno e vediamo corpi, alla disperata ricerca di salvezza, muoversi in un mare nero.

Altro tratto peculiare dell’opera di Nolan è il carattere assolutamente non romanzato della narrazione: Dunkirk non sceglie di focalizzarsi su un protagonista del quale si sviscera giovinezza, famiglia, l’immancabile storia d’amore che precede la partenza per la guerra. No: l’inizio, pienamente in medias res, senza fronzoli o introduzioni particolari (se non poche righe scritte su sfondo nero), rende superfluo anche il racconto degli antefatti o di qualsiasi cornice politica: perché l’intento dichiarato è quello di catapultare lo spettatore in una dimensione sensoriale, visiva e soprattutto sonora, dove non c’è tempo per qualsiasi riflessione sul mondo esterno. Significativo, (e positivo)  il fatto che non ci siano scene di bureau a interrompere la narrazione, con ufficiali dietro la scrivania armati solo di telefoni o cartine geografiche.

Dunkirk racconta invece tre storie parallele, ognuna accompagnata dalla propria orchestra sensoriale e visiva, sulla spiaggia, in cielo e per mare. Storie in cui le uniche concessioni alla retorica le fa l’anziano patriota a bordo del suo yacht.
Un ritratto indubbiamente inedito del cinema di guerra, concreto ma non brutale. Che fa della frammentazione il suo punto di forza, scegliendo di non seguire un solo filo conduttore ma illustrando momenti, situazioni, come a mostrare che nella guerra regna il caos e non la linearità. Di quello che succede al di fuori, poco importa. Non si tratta di una scelta narrativa immunizzante da difetti, né sempre condivisibile, perché in un paio di occasioni lo switch tra spiaggia-mare-cielo spezza effettivamente la tensione e sembra fare di Dunkirk una vittima della ripetitività.
Per fortuna questa sensazione dura solo pochi frangenti e non intacca la qualità generale del film, sempre corale, in cui ogni elemento (vivo o materiale) sembra muoversi all’unisono con il mare di nebbia. Le note (poche) di Hans Zimmer non sono una vera e propria colonna sonora, ma un eco ossessivo, non raffinato, simile alla sirena di uno Stuka.

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