Roberto De Paolis assicura una messa in scena sicura e consapevole ed è efficace nel farci entrare in un universo narrativo realistico e immersivo. Al cinema.
di Roy Menarini
Il film di Roberto De Paolis, figlio del fondatore di BIM e di Cinema, Valerio, sembra affermare alcune verità. Una di queste è la negazione del principio per cui guardiamo con sospetto ai "figli d'arte" come privilegiati. In questo caso, ci troviamo di fronte a una situazione particolare, poiché il papà non è un regista o uno sceneggiatore, bensì un distributore. Magari qualcuno potrà eccepire sulle opportunità che una persona dell'ambiente riceve in avvio di carriera, ma sul talento e sulle capacità personali di Roberto De Paolis c'è poco da discutere.
La seconda verità è che ormai possiamo contare su un gruppo di registi italiani giovani e innovativi in grado di proporre opere all'altezza degli standard - tutt'altro che semplici da raggiungere - del cinema d'autore internazionale e da festival.
La recente ondata di premi, da Berlino a Cannes, da Venezia a Locarno, testimonia di un periodo - quello del secondo decennio degli anni Duemila - particolarmente fertile. Sarebbe però altrettanto sbagliato pensare che si tratti di pellicole basate esclusivamente sul talento personale dell'autore e non replicabili. Sta accadendo l'esatto contrario. Con il cinema di Alice Rohrwacher, Francesco Munzi, Saverio Costanzo, Claudio Giovannesi, Leonardo Di Costanzo, Gianfranco Rosi e molti altri - tra cui le nuove leve come Marco Danieli o Andrea De Sica (a proposito di figli) - ci siamo rimessi a parlare l'esperanto del linguaggio cinefilo trasversale e multietnico.
Certo, si può opporre - come alcuni critici anche di recente hanno fatto - che anche questa produzione ha forti standardizzazioni, tanto quanto il cinema di genere: l'uso della macchina da presa vicino agli attori, la rappresentazione di classi disagiate, l'osservazione antropologica delle nuove tensioni sociali, gli amori contrastati e così via. Ma, se invece invertiamo il binocolo, scopriamo che quello che taluni definiscono "standard" noi lo possiamo definire "sistema", e quello che per altri è ridondanza per i più appassionati è "affidabilità" verso l'alto.
Non si vuole, in questo modo, sminuire l'unicità di Cuori puri. Il film di De Paolis, in effetti, ha alcuni meriti propri e meno condivisibili con i colleghi. E se la forza espressiva di attori poco conosciuti non stupisce troppo vista la frequenza con cui ne stiamo scoprendo, più raro trovarsi di fronte a una messa in scena sicura e consapevole.
L'esplorazione dello spazio è certamente tra le doti più evidenti di De Paolis, sia quando lavora sugli interni o sulle piccole comunità (da quanto tempo non vedevamo un gruppo religioso così connotato e al tempo stesso così poco stereotipato?), sia quando si dedica alla nuova "balcanizzazione" dei quartieri popolari. L'idea del parcheggio, e della rete che divide il protagonista dal campo Rom, è una di quelle idee di scrittura che potrebbero sortire l'effetto opposto (risultare cioè didascalici, col tema dei muri e delle separazioni in bella vista) e che viene invece valorizzato e rafforzato dalle operazioni di regia. Nessuno sconto sul razzismo ormai diffuso in modo capillare tra i nuovi poveri, ma nessuna rappresentazione oleografica nemmeno dei Rom, spesso minacciosi, preoccupanti e provocatori.
Con sullo sfondo la questione mai banale del tramonto delle ideologie o delle grandi credenze (e il bisogno comune di ritrovarne), Cuori puri è efficace nel farci entrare in un universo narrativo realistico e immersivo, più che nella storia d'amore tra i due ragazzi, peraltro credibile. E compone un altro tassello di un "cinema sociale" che fa perdere la connotazione deprimente e ricattatoria che questa categoria era solita evocare.