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120 battiti al minuto, il film che la comunità LGBT attendeva da tempo

Il regista Robin Campillo racconta il suo lavoro, Gran Prix a Cannes 2017 e candidato per la Francia come Miglior Film Straniero agli Oscar. Dal 5 ottobre al cinema.
di Raffaella Giancristofaro

120 battiti al minuto

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lunedì 2 ottobre 2017 - Incontri

Gran Prix a Cannes 2017 e candidato per la Francia come Miglior Film Straniero agli Oscar, 120 battiti al minuto di Robin Campillo, anche sceneggiatore per Laurent Cantet (A tempo pieno, Verso il Sud, La classe), è il film che la comunità LGBT attendeva da tempo. Perché con sintesi elegante e competente ne sa far convivere l'anima (ri)creativa e quella politica, tra joie de vivre, senso e pratica della militanza, responsabilità individuali e collettive.

Ambientato a inizio anni '90 a Parigi, con il giusto distacco emotivo e temporale dall'apice della diffusione dell'Aids, ricostruisce i dibattiti interni e le spettacolari azioni di protesta di Act Up Paris. Associazione nata nel 1989 sull'esempio delle gemelle statunitensi con lo scopo di chiedere un intervento tempestivo contro l'Aids alla politica nazionale e alle case farmaceutiche e di informare la cittadinanza.
Raffaella Giancristofaro

Nel farlo, segue l'amore tra Nathan (Arnaud Valois), neofita di Act Up e Sean (Nahuel Pérez Biscayart), attivista radicale, uniti anche nell'affrontare con dignità la malattia. Il regista Robin Campillo, nato nel 1962, ha militato a lungo in Act Up.


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In foto una scena del film 120 battiti al minuto.
In foto una scena del film 120 battiti al minuto.
In foto una scena del film 120 battiti al minuto.
L'INTERVISTA

Perché ha scelto questo titolo, che rimanda alla musica elettronica?
I motivi sono tanti. Ovviamente il primo riferimento è alla musica house, ai bpm, la frequenza di 120 battiti al minuto, ma non solo. Nel fare il film volevo anche rendere omaggio a quella musica, che per me è stata la colonna sonora dell'epidemia. Quando sono entrato in Act Up e ho ricominciato a far festa, ad aver meno paura della malattia, ad affrontarla, è stata la musica ad accompagnarmi. Una musica molto festaiola ma che al tempo stesso ha anche qualcosa di molto malinconico, che amavo molto. E che poneva una domanda fondamentale sulla vita: sul fatto che non può consistere solo nel lavorare ma nel divertirsi, far l'amore, far sesso, assumere droghe, tutte cose che amavo. E la vita è talmente bella, grazie a tutti questi piaceri, che allora provavamo un senso di profonda ingiustizia al pensiero di dover morire proprio a causa loro. Ma 120 battiti al minuto sta anche per la pulsazione del cuore quando ci si innamora, quando si ha paura della malattia, quando si è malati: il cuore accelera, nei momenti eccezionali della vita. E certamente uno dei momenti eccezionali della mia è stato aver fatto parte di quest'associazione.

La colonna sonora cita solo due brani dell'epoca ed è affidata ad Artaud Rebotini, già autore del soundtrack del suo secondo film, Eastern Boys. Che indicazioni gli ha dato?
Ad Arnaud ho chiesto che la colonna sonora assomigliasse alla house music di allora. Da dj, conosce perfettamente la musica di quel periodo e ha scelto tutti i sintetizzatori per crearla, è un artista proteiforme. Gli ho chiesto di comporre il tema del film un anno prima di girare perché avevo bisogno di sentire della musica, che, dato il soggetto del film, ritenevo particolarmente rilevante. Lui l'ha trovato, al pianoforte, ed è stata una soddisfazione enorme vedere come questo sia cresciuto nel film. È stato fondamentale anche per gli attori: la musica che si sente nell'ultima scena in discoteca per me è molto importante, perché gli attori danzano, ma soli, ognuno per conto proprio. Quell'immagine dentro il club per me è molto vicina a quella della sala cinematografica, dove si è "soli insieme", come nella malattia. Ho girato questa scena di ballo a metà delle riprese ed è stato solo allora che gli attori hanno sentito per la prima volta quel tema musicale: è stato un momento di grande sconvolgimento, perché hanno capito di che tipo di film si trattava. In parallelo al tema principale poi c'è la musica da club: per ogni scena una musica particolare, sempre meno gioiosa, sempre più inquietante, e quindi anche dei brani più jazzy. Inoltre abbiamo inserito un brano d'epoca, What About This Love di Mr. Fingers, perché è uno dei miei preferiti di sempre. Ai tempi lo suonavo sempre alle mie feste a casa, come primo pezzo, per spingere la gente a ballare.

E poi c'è una specie di campionamento del vocale di Smalltown Boy (1984) di Jimmy Somerville, forse il primo pezzo pop di successo a raccontare una storia apertamente omosessuale. Come ha contattato il cantante dei Bronski Beat?
Negli anni '80 Somerville ha sostenuto economicamente Act Up Paris e tenuto un concerto, che io avrei voluto ricreare e filmare. Lui però non ha voluto apparire nel film; non perché non gli piacesse la sceneggiatura, ma perché aveva paura, cosa che posso capire. Però ho avuto accesso a tutte le tracce del brano, così Arnaud Rebotini ne ha potuto fare un remix in stile anni Novanta, isolando la sua voce dal resto. L'ha tenuta separata, privandola di qualsiasi riverbero. È molto secca, quindi è come se fosse lì, presente. L'ho voluta usare, in montaggio, per sottolineare la grande solitudine di Nathan, perché Sean a quel punto del film sta molto male.

Che cos'è l'associazione Act Up Paris, oggi?
Esiste ancora ma non ne faccio più parte. Ho smesso di militare perché sentivo che l'epidemia aveva avuto un peso troppo grande nella mia vita, visto che ne ho fatto parte fino al 2004, quindi per circa 20 anni. A quel punto mi sono detto che fare questo film sarebbe stato già in sé un atto di militanza. Ero già stato lontano per troppo tempo dal cinema e volevo dedicarmi a ripensare a questa storia: i due grandi eventi della mia vita sono stati il cinema e l'Aids e questo film li fa incontrare. La cosa curiosa è che Act Up ha dei militanti che erano con me e sono sieropositivi e sono tornati all'associazione per fare pressioni sulle case farmaceutiche. Act Up compie ancora molte azioni, ma è una realtà minoritaria, perché oggi esistono più terapie e la gente è convinta che l'Aids sia stato debellato. Ma da quando il film è uscito nei cinema ci sono state molte nuove adesioni. Anche l'attore che nel film interpreta Max, il giovane emofiliaco, è entrato in Act Up per creare una commissione sui rifugiati, perciò alla fine il film è stato importante anche per l'associazione.

I social media hanno cambiato il modo di fare militanza secondo lei, rispetto alla sua esperienza in Act Up?
Sì ma è complicato spiegare come sia cambiato. Ho l'impressione che in rete e sui social ci siano posizioni molto radicali ma che i giovani non scendano in strada per difenderle, che restino "radicali da tastiera", che manchi l'aggregazione. La nostra mobilitazione non è stata diversa solo perché allora Internet non esisteva, ma perché ha toccato i nostri corpi, perché eravamo coinvolti in prima persona, fisicamente. La ritengo una lotta analoga a quella delle donne per ottenere il diritto all'aborto o quella degli afroamericani negli Stati Uniti per i diritti civili. Anche oggi faccio delle azioni, firmo delle petizioni a supporto dei migranti, ma non sono un migrante. È molto difficile fare lotta politica per gli altri.

Eppure una delle cose più belle del film è che la lotta per il diritto alla cura è fatta per tutti: gay, etero, prostitute, tossicodipendenti, carcerati, studenti...
È vero: in Act Up, all'interno della quale militavano anche prostitute, transessuali, tossici, era molto forte il senso della difesa di tutte le minoranze.


RECENSIONE

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