Vi presento Toni Erdmann

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Speranze, affetti e scherzi infantili per scoprire il mondo con un sorriso

di Natalia Aspesi La Repubblica

Questa mattina si sa se Vi presento Toni Erdmann ha vinto o no l'Oscar per il miglior film straniero. Forse merita, ma non ha nessuna importanza perché la terza opera della quarantenne autrice e regista tedesca Maren Ade, in due ore e mezza che scorrono quiete eppure senza respiro, è diverso da ciò che siamo abituati a vedere. Può darsi che al pubblico stanco risulti inquietante e stordente, mentre lasciarsi andare alla sua perfezione e ricchezza è una esperienza di quelle che per giorni ci fanno riflettere anche sulle nostre scelte di vita. Non c'è comunque nel film un solo momento di vuoto, nell'alternarsi continuo di comicità, malinconia, sperdimento, speranze, delusioni, solitudine, incomprensione, affetti, momenti di assurdi scherzi infantili e delle ancor più assurde realtà del presente. C'è un uomo in età, Winfried, ex professore di pianoforte in pensione, che vive solo in una cittadina tedesca, col suo vecchio cane moribondo e un senso di leggerezza e di gioco che gli viene da una giovinezza hippie, del genere che oggi è del tutto svanita. Va a trovare la vecchia madre anche lei sola e di pessimo umore, va a festeggiare dall'ex-moglie che si è rifatta una vita, riceve la visita della loro unica figlia, la ultratrentenne Ines, che lavora a Bucarest, è una donna molto in carriera, e la sua specialità, per una società tedesca, è l'outsourcing, che, spiega al padre, vuol dire aiutare le nuove imprese della globalizzazione ovunquesiano,ad appaltare a società esterne processi produttivi, funzioni o servizi. «Insomma a licenziare». Dice Winfried: quella figlia che gli è sfuggita e che non riconosce gli fa pena, non riesce a capirla anche in quelle poche ore in famiglia sta sempre al telefono, ha il corpo divorato dalla necessità estetica del suo lavoro, magra, scattante negli stretti tailleur, il viso chiuso ad ogni sentimento, corrucciato, gelido. Poi alla fine del film il padre, forse sconfitto, forse no, dirà a lei, a se stesso, a noi: «Mentre siamo attivi e giovani, lavoriamo, telefoniamo, ci agitiamo, e intanto il tempo scorre. Perdiamo tante cose per strada, ma ce ne accorgiamo solo dopo; solo alla mia età, da anziani. Tuttavia non c'è soluzione, perché in quel momento della vita non possiamo capirlo». Che cosa sta perdendo Ines per la strada dell'accanimento professionale e, non è detto, del successo? Lei non lo sa, suo padre sì: anche lui nella sua vita tanto diversa, a inseguire ideali di vita irresponsabile e impossibile, ha perso i legami, gli affetti, il senso di comunità, il futuro. Quando lui la raggiunge a sorpresa a Bucarest, vestito malamente, una borsa di tela sulla spalla, la barba non fatta, gli irsuti capelli grigi, una finta dentiera nel taschino, lei affettuosamente, duramente, lo porta con sé nei suoi incontri di mondanità lavorativa e Winfried la mette in imbarazzo, imbarazzando i signori eleganti e sordidi di questo mondo nuovo, da governare con le crudeltà del profitto cieco: soprattutto in un paese ancora povero, che passando dal comunismo miserando di Ceausescu precipita indifeso nella democrazia dello sfruttamento. Pare che lui torni in Germania sconfitto, e invece resta. con la sua abitudine a travestirsi, una dentiera sporgente e una disordinata parruccona nera, sbarbato, in un brutto completo e brutta cravatta, si presenta come Toni Erdmann, vuoi stravagante coach di personaggi importanti, vuoi improbabile ambasciatore tedesco, vuoi solo scocciatore: naturalmente Ines lo riconosce ma non ha più tempo per lui. Ha questi incontri di lavoro mortificanti, perché pur ammirando la pervicace crudeltà dei suoi-progetti di azzeramento dei costi e quindi dei posti di lavoro, gli altri, tutti uomini, non dimenticano che è solo una donna, la usano e la trattano con sorridente sufficienza. Lei si affanna anche contro se stessa, nel suo accanimento chiuso ai sentimenti, alla condivisione, al mondo degli altri la cui sopravvivenza economica dipende della sua abilità a cancellarla. C'è per lei una delle scene di sesso più umilianti - viste, una specie di autopunizione e punizione del maschio cui nulla la lega, completamente priva d'amore e persino di piacere: complici dei dolcetti che difficilmente ci verrà più in mente di desiderare. Ma cosa vuole l'importuno Toni da lei? Forse, immaginiamo, che non perda quello che ha perso lui, che non resti sola, che sia amata, che ami, che colga nella vita una felicità che le è del tutto estranea, che neppure immagina possa meritare. Toni la porta in una famiglia che ha conosciuto per caso, dove ci si prepara a festeggiare la Pasqua ortodossa: tanta gente, tanta gioia, vecchi e bambini, amore, le uova da dipingere. È un momento di cinema molte bello, che intenerisce persino Ines: che nel calore di quella piccola folla affettuosa, col padre al pianoforte, si lascia andare e canta con inusitata passione una canzone di Whitney Huston. Il film prosegue con altri investimenti, altri denudamenti, altri giochi, altro dolore, altre incertezze, altri cambiamenti, altri fraintendimenti. Gli attori a noi sconosciuti, il padre, Peter Simonischek, la figlia, Sandra Huller, sono meravigliosi. I critici hanno molto amato questo film, già molto premiato, però chi va a vederlo, e io penso che ne valga la pena, sappia che gli sarà chiesto non solo di divertirsi, ma an che di pensare, e si sa che pensare non è mai divertente.
Da La Repubblica, 27 febbraio 2017


di Natalia Aspesi, 27 febbraio 2017

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