Paterson

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La quiete delle cose minute Valutazione 4 stelle su cinque

di Andrea Alesci


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martedì 21 febbraio 2017

Due è il numero che fa funzionare Paterson (uomo). Due il numero dentro Paterson (la cittadina). Due la cifra del film Paterson, dove ci sono un io, un noi e un noi due. Come in greco: il duale. La terza via che Jim Jarmusch inscrive anche nel numero dell’autobus guidato da Paterson (Adam Driver): 23. La linea ventitré, quella del protagonista del film, quella con cui scarrozza i passeggeri per la città e noi spettatori fugacemente dentro le storie di quei passeggeri.

Segni. Segni che appaiono anche all’inizio del film, quando la scritta su un tunnel di mattoni rossi recita: Paterson. Una cittadina che già nella sua nomenclatura tiene a battesimo il figlio Paterson. Il nome che sta più di tutte le altre parole sulla bocca dei personaggi. Siamo dentro la storia di un autista di autobus nella cittadina che gli ha dato i natali e dove vive con la moglie Laura (Golshifteh Farahani).

Segni in sovrimpressione come fossero scritti al momento: sono versi che parlano di una scatola di fiammiferi, gli Ohio Blue Tip. Li scrive Paterson (dai titoli di coda sappiamo che sono del poeta Ron Padgett) per fermare ciò che gli accade intorno. Li scrive per la moglie Laura e il suo animo da artista in bianconero, che con questi due non-colori decora qualsiasi cosa dentro la loro casa.

La casa come uno dei punti di certezza insieme all’autobus di Paterson e al pub dove la sera Paterson si ferma nel portare a passeggio il loro bulldog. Dentro al pub gestito da Doc (Barry Shabaka-Henley), che ha ricostruito la storia di Paterson attraverso il muro delle celebrità che lì vi sono nate o transitate. La certezza delle cose piccole, la storia della città di Paterson.

Paterson (il personaggio) è sempre quieto, non usa parole di spregio né si altera davanti alle sgradevoli torte salate della moglie, o quando lei decide di comprare una chitarra, né di fronte ai bislacchi ritratti del loro cane Marvin. Non si scompone nemmeno quando scopre che Marvin (la sua ringhiante nemesi) ha fatto a brandelli il taccuino sul quale aveva appuntato tutte le sue poesie.

La routine si ripete incessante, ma senza pesantezza. E lo scopriamo subito, capendo che staremo a osservare i giorni di una settimana di questa coppia, ogni mattina introdotti da una camera a piombo sulla loro tenerezza al risveglio. Gli ambienti sono pochi e non viviamo la città: siamo dentro la casa di Paterson, con lui lungo il tragitto che passa davanti alla vecchia fabbrica, seduti di fronte alla cascata, sull’autobus, nel pub.
Paterson raddoppia nel nome del suo protagonista e della città da cui ha preso il nome. Un doppio che si riflette nei gemelli incontrati lungo i suoi tragitti ordinari, segno di quel sogno di avere due gemelli che la moglie Laura gli racconta in principio. Jim Jarmusch non insinua nulla: mostra. Non vuole costringerci entro un messaggio, non c’è una morale da portarci a casa. E a Paterson la coincidenza del suo nome con quello del la città dà un senso di aderenza alle cose, un senso di appartenenza.

È tutto qui. Tutto sta quieto dentro una vita duale, una vita che dice noi due (Paterson e Laura), felici di amarsi tra poesie, arte, passeggiate, silenzi, routine. Anche quando mancano le parole, anche quando la pagina è bianca e si deve ricominciare. Perché la pagina bianca offre più possibilità. E forse il senso di Paterson sta un po’ nelle parole che una volta pronunciò lo stilista Karl Lagerfeld: “Non ho archivi. A me interessa il fare, non l’avere fatto”. Ecco, la compiutezza del presente.

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