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Bianco e nero: una scelta che al cinema non nasce mai per caso

Alessandro Aronadio lo ha usato per Orecchie, al cinema dal 18 maggio, ma sono molti i precedenti illustri. Da Schindler's List a The Artist, ecco 10 imperdibili film in bianco e nero.
di Emanuele Sacchi

Orecchie

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Daniele Parisi . Interpreta Lui nel film di Alessandro Aronadio Orecchie.
martedì 16 maggio 2017 - Focus

È dalla prima mondiale alla Mostra del Cinema di Venezia che gli addetti ai lavori parlano di Orecchie: il ritorno della commedia surreale, delle idee che vengono prima di glamour e esigenze del botteghino; di una tradizione sotterranea italiana che vanta padri nobili e che da Nichetti e Bozzetto, giù giù fino a Sandro Baldoni di Strane storie, ha contraddistinto una branca peculiare della nostra cinematografia. Ora la sentenza sarà nelle mani del pubblico, in genere incline alla via italiana al grottesco, che in Aronadio trova una nuova voce.

Quello che si sottolinea meno di Orecchie è invece la sua scelta estetica controcorrente, quella di privilegiare il bianco e nero rispetto al colore.
Emanuele Sacchi

Benché non siano pochi i registi che negli ultimi decenni, per ragioni differenti, hanno privilegiato l'assenza di colore e la scala di grigio alle potenzialità cromatiche offerte dall'era digitale. Abbiamo provato a riunire qui alcuni di questi titoli, tutti o quasi imperdibili.


ORECCHIE: SCOPRI IL FILM
In foto una scena di Orecchie.
In foto una scena di Orecchie.
In foto una scena di Orecchie.
 

Solo in una fase avanzata del film comprendiamo pienamente le ragioni della scelta di Steven Spielberg. In una delle scene più discusse della storia recente del cinema, il vestito rosso della bambina ebrea, prigioniera di Auschwitz, colpisce come un maglio la coscienza dello spettatore. Come per Sin City (vedi sotto), una macchia di colore primario amplifica il proprio effetto nell'equilibrio di bianco e nero, due non-colori che sembrano quasi riflettere lo Yin e lo Yang della complessa personalità del protagonista, prima aguzzino e poi salvatore.


GUARDALO SUBITO CON TROVASTREAMING
 

Sensualità e dominazione, perversione fuori controllo e voyeurismo irrefrenabile. Il virus metropolitano che dà vita al cinema violento e sofferente di Tsukamoto Shinya trova in Snake of June uno dei suoi vertici. La danza da burattino di Rinko sotto la pioggia battente e i flash instancabili è una sequenza che non si dimentica.


RECENSIONE
 

Al posto di questo titolo, con uno stralunato Robert Englund trapiantato in Sicilia, avrebbe potuto esserci il "maledetto" Totò che visse due volte o ancora Lo zio di Brooklyn. Per Ciprì e Maresco, duo di registi cinico e corrosivo, che segna tv e cinema italiani anni '90, i colori non esistono. A Palermo, nello squallore di un'umanità ridotta alla propria natura bestiale, il colore non si è mai visto, non lo si è neanche sognato. I profondi neri fotografati da Ciprì sottolineano, con tratto espressionista, la natura grottesca di individui estromessi ab aeterno dalla società del benessere.


RECENSIONE
 

Per Robert Rodriguez e Frank Miller si tratta relativamente di una scelta. Il graphic novel originario di Miller è infatti un inno ai contrasti di noir e bianco, dove il primo prevale nettamente sul secondo, inondando di disperazione la buia notte della città del peccato. Il colore non è bandito, ma ritorna a sprazzi - nel fumetto come nel film, che riprende in tutto e per tutto le strisce originarie, in un'operazione di mimesi senza precedenti - con effetto dirompente. Il rossetto di una donna, il blu del suo vestito, il giallo di un nemico sfigurato ingannano l'occhio rispetto all'unico colore che domina il cuore della Città, nero come la pece.


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L'esistenza di Ian Curtis sembra prefigurare il proprio esito tragico a ogni passo. Nella quiet desperation che per i Pink Floyd era connaturata allo stile di vita britannico, non ci sono vie di fuga apparenti. E quando compaiono si rivelano inevitabilmente fasulle. Ian non tollera niente che non sia autentico, troppo sensibile per un mondo profondamente ostile. Anton Corbijn, che dei Joy Division aveva forgiato l'estetica più tarda, rielabora quegli anni servendosi di neri intensi, presagi del buio destinato ad avvolgere Ian per sempre.


RECENSIONE
 

Come per Blancanieves, il bianco e nero è il (non) colore del presagio, la consapevolezza che qualcosa di terribile sta per accadere. Haneke parla a un pubblico complice e consapevole, svelando ancora una volta la natura umana nei suoi perversi meccanismi, con la precisione di un chirurgo. Il bisturi invisibile del regista austriaco incide l'animo anziché la carne, lasciando una gelida e familiare sensazione di terrore misto a stupore.


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Per alcuni uno struggente omaggio al muto, per altri un giochino astuto assemblato per incantare i meno smaliziati e accaparrare degli Oscar. Comunque la si pensi, The Artist resta un'anomalia, un eccentrico divertissement, che ha restituito al cinema muto le luci della ribalta, anche se per un effimero - e forse ipocrita - momento. Straordinaria Bérenice Bejo, diva cangiante e credibile, il solo volto destinato a restare della pellicola di Hazanavicius.


GUARDALO SUBITO CON TROVASTREAMING
 

Blancanieves ha avuto la sola colpa di arrivare un anno dopo The Artist e di ricevere la prevedibile accoglienza che si riserva a chi difetta in originalità ("Ah, un altro flm muto"). In verità l'idea del film di Pablo Berger risale a un periodo precedente rispetto al successo di Hazanavicius e le somiglianze tra i due si limitano all'uso del bianco e nero e alla mancanza di una traccia vocale. Prendendo spunto da una surreale fotografia di un torero nano, Berger costruisce un ardito mash-up tra la fiaba di Biancaneve e un dramma passionale ambientato nella Spagna anni '20. Girato come si trattasse di un documentario, Blancanieves si interroga sull'identità spagnola e su come questa venga compromessa dall'imminente franchismo. Fosse uscito un anno prima, avrebbe suscitato ben altra eco.


RECENSIONE
 

Poeta e incantatore, documentarista e beffardo cineasta, Miguel Gomes trova in Tabu forse il suo capolavoro: un incastro di storie in cui il piacere di narrare, di guardare ed essere osservati conduce in una complessa spirale di ricordi e visioni, da cui non si vorrebbe mai uscire. Gomes è come se tornasse alle origini del cinema, quasi cercando di fondere i contrasti di bianco e nero in cerca di quel nitrato d'argento alla base del mistero del cinematografo.


RECENSIONE
 

Forse il maggiore "umanista" della sua generazione, Alexander Payne riporta davanti alla macchina da presa l'allora settantasettenne Bruce Dern per un road movie sui generis. Inganno di un anziano che ama illudersi e insieme disamina delle miserie della provincia americana, in una cartolina che alla nostalgia preferisce la comunanza di intenti con la gente comune, disperatamente fallata ma autentica, nonostante tutto. Un'istantanea di un mondo in estinzione, che non può che essere in bianco e nero.


RECENSIONE

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