Le cose che verranno - l'Avenir

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l'Avenir Valutazione 4 stelle su cinque

di ninoraffa


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lunedì 26 febbraio 2018

 Diffidare dei mariti kantiani. Forse non molte donne potranno fare tesoro di questo consiglio, ma è uno dei messaggi di Le cose che verranno. Un serissimo marito con la legge morale nel cuore e il cielo stellato sopra la testa, non garantisce dall’adulterio e dall’abbandono.
 
Nathalie, l’ottima Isabelle Huppert, è una donna dalle molte cause. Insegna filosofia in un liceo parigino, con lo zelo dell’ex comunista adesso convertita alla più ardua missione di far pensare i ragazzi con la loro testa. Ha una madre, ex modella invecchiata presto, incline al suicidio allarmante e simulato. Cura una sofisticata collana di saggi filosofici e un’antologia scolastica. E’ mentore di Fabien, un ex alunno diviso tra la Scuola di Francoforte e il tafferuglio anarchico con la polizia, che forse ha preso troppo sul serio i suoi insegnamenti libertari.
 
Intorno ai sessant’anni anni, la vita – più o meno secondo la regola – comincia a presentarle i conti.
Del marito, Heinz, e della più giovane compagna nuova destinataria dei suoi imperativi morali, abbiamo anticipato. Nathalie andrà per l’ultima volta con lui nella loro casa sull’oceano in Bretagna, a prendere i vestiti e seppellire nel giardino di rose venticinque anni di vita comune.
Come se non bastasse, il suo editore smette di buttare soldi con i pensieri di gente morta che non interessano nessuno, cancellando la sua collana. La madre muore nel pensionato dove Nathalie è stata costretta a portarla, lasciandole una grossa gatta dal significativo nome di Pandora, a cui peraltro lei è allergica.
Arriva l’estate e Fabien si ritira con gli amici in una fattoria sperduta a preparare l’universale anarchia prossima ventura. Lei lo raggiunge volentieri nel suo paradiso terrestre sperimentale; ma tra interminabili discussioni se esista o no l’autorialità, salta fuori l’accusa, sopita da sempre, che lei è la borghese benestante e privilegiata che in effetti è.
 
Nathalie attraversa questi sconvolgimenti senza tragedie, in un dignitoso fatalismo sostenuto da un lampo d’orgoglio nello sguardo. Coerente – come Fabien e Heinz neppure possono immaginare – con un certo modo di fare filosofia rispettando l’altrui libertà sulla propria pelle. Anche se gli altri neppure se ne accorgono, e non ci si aspetta neppure più che lo facciano.
Oltre la recriminazione, oltre la delusione, Nathalie non prova a riconquistare Heinz, né a difendere le sue pubblicazioni, né a spiegare a Fabien di avere già percorso le stesse illusioni.
Il volto segnato, l’atteggiamento raccolto, Nathalie possiede il senso del tempo e delle cose che accadono senza che si possa fare niente.
 
Nell’ultima scena prepara la cena di Natale e riunisce i figli a tavola; poi in camera da letto prende in braccio il nipotino neonato; infine l’inquadratura sfuma sugli addobbi e l’abete con i regali.
Finale dalle molte letture. A prima vista spiazzante per una donna impegnata – e per la sua generazione – che ha visto svanire i grandi ideali di cambiare il mondo, fino a restringersi nell’intimità familiare di un interno parigino. Nathalie è alleggerita da tanti pesi, ma questa libertà, oltre che subita, è sorprendentemente ridotta rispetto alla dimensione intellettuale e morale della sua figura. Quasi a sconfessarla, insinuando, per di più, un epilogo non lontano dai vecchi stereotipi femminili casalinghi.
E allora, più in profondità, “Le cose che verranno” potrebbe riguardare l’intera condizione umana. Potrebbe avvisare sull’abbaglio del progresso e sull’arroganza di conoscere il mondo e le persone; sulla futilità di predicare sistemi, oppure demolirli, immaginando un nuovo che è già vecchio e fallito; e ancora sulla vanità d’insegnare qualcosa a qualcuno. Fino all’inevitabile naufragio e al riparo ultimo nelle piccole cose.
 
Ma forse la brillante autrice del film, Mia Hansen-Løve, vuole andare oltre. L’avenir del titolo originale custodisce altri propositi per la sua Nathalie: non una conclusione, ma un’apertura alle vite che verranno. Lo stesso nome, come il nipotino in braccio la notte inaugurale della Natività, sono segni di (ri)nascita. Possibilità di nuove storie meno pattuite col mondo e con se stessa. Vite spontanee di nonna e madre, di educatrice nel suo liceo, di scrittrice fuori dal sistema editoriale che pubblica in rete con gli alunni. E perché no?, si possono immaginare per lei vite anche sentimentali, una fisicità non più sorvegliata, e magari un compagno più giovane per niente filosofo con cui esplorare altre dimensioni.
 
Nathalie si è imborghesita, ma essere rivoluzionari a vent’anni, come Fabien, non è un’altra convenzione di segno opposto? Ed essere rigorosi conservatori come Heinz, non è solo ipocrisia e nascondimento?
Lei ha attraversato il mutamento – l’inevitabile attrito di ogni vita con le circostanze – in piena consapevolezza, mantenendo la condizione privilegiata di osservatrice critica, e insieme l’innocenza. Non si è sottratta alle ferite, ha pagato i suoi prezzi e adesso (quasi) nulla le è precluso.
E’ il finale che preferiamo. Per Nathalie e per tutte le donne a cui la vita continua ogni giorno a presentare i conti.
 

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