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Marco Paolini: «Ho nascosto me stesso per dare vita ad un'altra creatura»

L'attore e il regista Marco Segato raccontano il dietro le quinte di La pelle dell'orso. Dal 3 novembre al cinema.
di Olivia Fanfani

La pelle dell'orso

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In foto l'attore Marco Paolini.
giovedì 3 novembre 2016 - Incontri

L'attore Marco Paolini e il regista Marco Segato parlano del film La pelle dell'orso, una storia sul passaggio di potere e competenze che deve avvenire fra un padre e un figlio. Sugli echi della seconda guerra mondiale, un leggendario orso bruno si aggira tra i boschi delle vette più impervie delle Dolomiti. Pietro, uomo dai tratti rudi e freddi, in paese è considerato un reietto da tenere alla larga a causa di un passato turbolento, segnato dalla precoce morte della moglie e dalla violenza della galera. La caccia al "Diavolo" sarà il suo riscatto agli occhi di tutti, specialmente di quel figlio, Domenico, con cui non riesce a stringere un legame sincero, intrappolato dietro un muro di silenzi e profonda commiserazione. Scacciando lo scetticismo dei compaesani, Pietro parte solo, col suo fucile, per vendicare e vendicarsi di quell'orso mitologico considerato invincibile, nemesi ultima di un uomo/bestia da sempre respinto.
Raggiunto dal figlio, desideroso di riscattare il rugginoso rapporto col padre, Pietro investirà forza d'animo e assoluta determinazione nel cammino di redenzione che lo avvicinerà una volta per tutte al giovane Domenico, disposto a sacrificare ogni cosa.

Quando lavori con un regista e condividi con lui il progetto del film fino in fondo, il compito dell'attore è di accompagnarlo.
Marco Paolini

Quali sono state le difficoltà maggiori incontrate nell'adattare un romanzo a opera cinematografica, rispettando gli stilemi del racconto originale?
Marco Segato: Il lavoro di scrittura appartiene, da una parte, alla scrittura di Marco Paolini, dall'altra alla mia esperienza di documentarista, che cerca nei posti e nei volti delle persone la storia che vuole raccontare. Per questo, mentre costruivamo il film, contemporaneamente facevamo dei sopralluoghi. Attingendo ai personaggi incontrati, abbiamo lavorato all'interno del paesaggio affidandoci ai consigli di Enzo Monteleone (Mediterraneo, Marrakech Express) che ha fatto un po' da mediatore per la stesura di una sceneggiatura complessa. Anche perché il libro aveva un vantaggio e uno svantaggio: il vantaggio era quello di essere una sorta di romanzo breve, senza una struttura troppo ampia, che ha garantito un ampio margine per ripensare elementi nuovi; lo svantaggio è stato che, affidandosi alla fantasia, il rischio fosse quello di snaturare il racconto.
Marco Paolini: La risposta più sensata è: quando lavori con un regista e condividi con lui il progetto del film fino in fondo, il compito dell'attore è di accompagnarlo e al massimo consigliarlo nel prendere decisioni. Io ho partecipato alla stesura della sceneggiatura ma la mia è stata una scrittura funzionale, nella misura in cui l'ultima parola è sempre stata di Marco e non mia o di Enzo. Tutto ciò che è stata la scrittura, il romanzo, dal primo giorno di riprese me lo sono dimenticato.


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Una scena del film.
Una scena del film.
Una scena del film.

Qual è stato l'approccio al personaggio di Pietro per Marco Paolini? Quanto del tuo teatro hai inserito nella creazione dell'uomo?
Marco Paolini: Io ho studiato Pietro guardando l'orso, l'orso vero che avevamo con noi sul set. Non ho costruito un personaggio a tutto tondo e ho contribuito a definire alcuni caratteri sapendo che l'aspetto fondamentale era nascondere Paolini per dare vita a un'altra creatura, di diversa umanità. Quando ho cominciato a vedere il film, la fatica è stata quella di smettere di giudicare l'attore per quel che faceva, chiedermi se avrei potuto farlo meglio, liberarmi di tutto questo e guardare il film, farmi raccontare la storia. In questo ho lavorato per sottrazione, specialmente sui dialoghi, per dare vita ad un uomo che lasciasse lunghi intervalli tra le domande e le risposte, con un suo proprio ritmo.

Chi vive in terre arroccate, costruisce società arroccate.
Marco Paolini

La conformazione territoriale agisce sul carattere rude dei personaggi, temprati da uno scenario di una valle in cui facevano chiodi. Che rapporto lega i protagonisti al contesto del piccolo paesino delle Dolomiti in cui si svolge la vicenda?
Marco Paolini: Chi vive in terre arroccate, costruisce società arroccate. Gli abitanti devono contare sulle proprie forze e non su un meccanismo di solidarietà manifesta. Pietro e Domenico abitano un territorio difficile, sono uomini che non appartengono ancora a una società liquida, ma a un mondo rugginoso, tendente alla repulsione, quasi impossibile da scalfire. Nel film come nella realtà il paesino (a 2000 metri di altitudine) dove abbiamo scelto di girare è anche un paese in cui apparentemente la solidarietà è bassa, e la società si struttura in una sorta di richiamo al Padre padrone messo in scena dai fratelli Taviani negli anni '70.
Marco Segato: Un paese che negli ultimi anni ha visto il quasi totale abbandono dei suoi abitanti, emigrati senza essere costretti a vendere le case natali, si è mantenuto così come gli ultimi lo avevano lasciato. Abbiamo riaperto case chiuse da oltre quarant'anni per dar vita al racconto di un tempo fuori del tempo, totalmente slegato da un approccio antropologico. Molte delle comparse sono abitanti del luogo, e forse proprio l'immediatezza dell'essere cresciuti tra queste vette ha contribuito ad equilibrare scenari duri con personaggi estremamente spigolosi, per tramandare un'idea di montagna che non è quella trendy, delle stazioni sciistiche, ma è piuttosto una realtà ruvida, di ancestrale diffidenza verso la parola e il sentimento.


Una scena del film.
Una scena del film.
Una scena del film.

E che valenza assume la vicinanza agli echi della seconda guerra mondiale?
Marco Segato: Rispetto alla guerra, sia l'Orso che Pietro sono dei reduci, gli ultimi della loro specie. Entrambi dei reietti, alle soglie degli anni '60 vivono un mondo che sta cambiando dove loro non hanno spazio. L'unico è Domenico a rappresentare il superamento di questi due mondi che tendono a confliggere e distruggersi l'uno con l'altro.
Marco Paolini: Noi mettiamo lo spettatore in condizione di comprendere giusto la superficie degli eventi narrati, non gli forniamo una lente per guardare etnologicamente un microcosmo. Per fornire un clima da avventura di genere, misterioso e criptico. Un po' come avveniva per le famiglie di un tempo: se c'era una situazione scabrosa in famiglia, ai ragazzi non si raccontava fin quando non fossero diventati grandi. Che poi non lo erano mai abbastanza, e la cosa scabrosa si veniva a sapere per vie traverse. Così avviene per la vita ricostruita sui cocci della guerra, per cui l'orso sembra rappresentare una specie di regalo del conflitto: un ultimo giapponese che non si è arreso ed è rimasto lì a combattere fra i disastri di un'Italia divisa in microcosmi che rivendicavano la propria originalità.

Un po' come avveniva per le famiglie di un tempo: se c'era una situazione scabrosa in famiglia, ai ragazzi non si raccontava fin quando non fossero diventati grandi. Che poi non lo erano mai abbastanza, e la cosa scabrosa si veniva a sapere per vie traverse.
Marco Paolini

Storicamente, il periodo in cui è ambientato il film non è riconducibile a un periodo in cui gli orsi abitavano quelle zone, la figura dell'orso vuole essere metafora delle difficoltà incontrate dal giovane Domenico nel suo percorso di crescita?
Marco Segato: Domenico ha una sfida dolorosa da affrontare che lo porta a diventare adulto. Solo un'esperienza forte cambia radicalmente un ragazzo in un uomo. L'orso incarna le paure dell'adolescente: la possibilità di un futuro in assenza del padre, un mondo adulto con cui il ragazzo non sa ancora approcciarsi, le nuove sfide. C'è un rapporto strano tra il ragazzino e l'orso, come se l'animale avesse scelto Domenico come proprio carnefice, nonostante il giovane non accetti fino in fondo il gravoso incarico. In una sorta di legame viscerale con la natura circostante, Domenico vibra insieme all'animale, secondo una logica celata agli adulti. In una sorta di omaggio alle opere di Miyazaki, vi è una similitudine nella violenza con cui l'adulto reagisce alla natura (Principessa Mononoke, Nausicaa della valle del vento) mentre il ragazzino rappresenta una coscienza diversa, nuova e migliore.
Marco Paolini: Nel romanzo sono più sfumati i contorni, c'è l'assenza della madre ma non c'è il delitto del padre. Il personaggio di Pietro è in funzione di Domenico in ogni sua azione. Gli attori, con sguardi e silenzi, gettano le basi per dare spazio all'evoluzione di un giovane che appare come protagonista inconsapevole del cambiamento. In quest'asciuttezza emerge invece l'importanza di onorare un padre in una sorta di riscatto ai torti subiti.


Una scena del film.
Una scena del film.
Una scena del film.

Nel film si sente la presenza di un terzo protagonista ad accompagnare ogni passo dei personaggi: la natura. È corretto identificare quest'ultima come attenta osservatrice degli eventi narrati?
Marco Segato: Il documentario t'insegna ad osservare l'ambiente e spesso parti dall'ambiente per raccontare una storia. In questo caso parliamo di scenario, non di uno sfondo all'interno del quale s'inseriscono i personaggi, ma un paesaggio attraverso cui quelle stesse persone prendono vita. La natura, nelle sue diverse connotazioni - dalla montagna all'orso - è incarnazione di un mondo nascono, che osserva silenzioso quello che avviene. Una natura neutrale: né troppo negativa né troppo positiva, in equilibrio tra le suggestioni divine di Malick e la distruzione caotica di Herzog. Una giusta misura con cui raccontare l'uomo e la realtà di questi luoghi, né troppo spettacolarizzati, né troppo violenti, in perfetto equilibrio.

Una natura neutrale: né troppo negativa né troppo positiva, in equilibrio tra le suggestioni divine di Malick e la distruzione caotica di Herzog.
Marco Segato

Possiamo quindi definire questo un film di genere?
Marco Segato: Inizialmente pensavo a un Noir ambientato prevalentemente di notte, poi c'era la possibilità di trasformarlo in viaggio iniziatico che s'ispirasse a Twain, a Jack London o Faulkner. Da qui il film ha vissuto di suggestioni condivise con Marco fino a trasformarlo in una sorta di ibrido tra il film di genere e il film d'autore. Perché più il film cerca di staccarsi dal genere più entra in una sorta di autorialità, con il film di genere devi avere padronanza del mezzo, una sorta d'artigianato che oggi per un giovane in Italia è praticamente impossibile per la mancanza di un pubblico di riferimento. L'idea del genere quindi c'è ma solo nella macrostruttura degli elementi principali: il viaggio dell'eroe, il western, il romanzo di formazione. Dentro questa abbiamo inserito tutta una serie di elementi autoriali, meno stereotipati, più concreti, osservati con occhio più attento e meno meccanico.


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