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Il senso di colpa dell'uomo bianco

Raoul Peck racconta I Am Not Your Negro, film destinato a mettere in crisi ogni nostro preconcetto alla luce di una implicita questione razziale.
di Emanuele Sacchi

I Am Not Your Negro

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Raoul Peck 1953, Port-au-Prince (Haiti). Regista del film I Am Not Your Negro.
mercoledì 22 marzo 2017 - Incontri

Una visione quasi disturbante nella sua acuta capacità di denuncia. I Am Not Your Negro di Raoul Peck è destinato a mettere in crisi ogni nostro preconcetto, anche il più recondito, invitandoci a ripensare e riosservare la nostra educazione, anche cinematografica, alla luce di una implicita questione razziale.

Lo spunto che ha messo in moto il lavoro di Peck è l'opera di James Baldwin, romanziere e saggista che negli anni della contestazione ha rappresentato una delle principali voci dei diritti degli afroamericani, alternativa, ma in parte convergente, alla rabbia di Malcolm X e alla mano tesa del reverendo King.
Emanuele Sacchi

Attraverso un meticoloso lavoro di editing, Peck riassembla le parole di Baldwin e le affida alla voce di un Samuel L. Jackson, che lavora sorprendentemente di sottrazione. Le immagini scelte per accompagnare le parole di Baldwin massimizzano l'effetto sullo spettatore, invitandolo a riflettere sulla sua immunità dal pregiudizio razziale. Difficile uscire indenni e privi di colpe dalla visione di I Am Not Your Negro. Di questo parliamo con Raoul Peck, regista del film, in occasione del Festival del Cinema Africano, Asia e America Latina di Milano.


In foto una scena di I Am not your Negro, al cinema.
In foto una scena del documentario I Am not your Negro.
In foto una scena del documentario I Am not your Negro.

Come mai il cinema ha un ruolo così centrale nel documentario?
La mia idea iniziale era quella di affrontare l'intero corpus baldwiniano, in tutti i suoi aspetti. Come riconquistiamo la nostra visione del mondo? Come facciamo a informarci in un mondo in cui è così difficile distinguere le notizie vere da quelle false o le immagini fedeli da quelle ritoccate? Sono tempi confusi questi: oggi tutte le opinioni sembrano avere lo stesso valore, anche se vengono da persone che non hanno studiato quel determinato contenuto. Baldwin per me è una voce importante, per come mi ha aiutato a strutturare il mio pensiero, a distinguere ciò che è importante da quello che non lo è. Mi ha dato una logica e degli strumenti per ragionare. Dunque nel film volevo parlare il più possibile del pensiero di Baldwin. Inoltre conoscevo l'importanza del suo lavoro di critico cinematografico e il suo studio sulle immagini per ricostruire l'oggetto "Negro", dalla sua origine alla sua evoluzione nell'immaginario dei bianchi. Volevo anche indagare cosa fosse il "negro" nel cinema hollywoodiano, con cui mi sono formato. Le immagini giocano quindi un ruolo fondamentale: I Am Not Your Negro non è un film di propaganda, ma un film sul cinema stesso.

Da spettatori "bianchi" ci sentiamo quasi in colpa di fronte alle immagini che meticolosamente avete raccolto e selezionato. Ad esempio, guardando The Pajama Game di Stanley Donen, non mi sarei mai soffermato a notare il fatto che tutti i ragazzi che vediamo sullo schermo sono... bianchi.
È perché non sei costretto a farlo: è quello che chiamiamo white privilege. La tua vita va bene così, perché non hai bisogno di combattere per qualcosa. La società costruita intorno a te ti esenta dal fare attenzione a questo, a ciò che c'è dall'altra parte. E questo dimostra quanto siamo diventati intellettualmente pigri, perché ci è sufficiente il racconto scritto da chi ha vinto e ha scritto la Storia. E il cinema dominante non fa che confermare questo racconto, e quindi siamo ancora più portati a crederci. Oggi le immagini possono essere artefatte e non rappresentano più una certezza. O, ancora, possono essere associate in uno stesso contesto, con una conseguente alterazione del loro senso. Un gattino che cade dalla sedia può diventare importante quanto dieci bambini che vengono uccisi, semplicemente perché le due fotografie sono vicine e decontestualizzate, sullo stesso iPhone. Nessuna immagine è innocente, ed è proprio nella loro selezione e nel loro uso che oggi si gioca la partita più importante.

Nel film, ad esempio, si associano in maniera inconsueta le immagini di Doris Day e Gary Cooper, producendo un diverso significato. Se John Wayne che massacra gli indiani oggi trasmette immediatamente l'idea di razzismo, è meno immediato pensare lo stesso di una scena con Doris Day. Ma Baldwin e il tuo lavoro nel film ci aprono gli occhi anche in tal senso....
Certo, siamo portati a pensare che il razzismo sia qualcosa di violento, di insultante, di eclatante. Invece no, può essere molto più semplice: consiste anche solo nel fatto di non rendersi conto che ci sia un altro da te e che sia anch'egli un essere umano tuo pari. Doris Day sul grande schermo è la più grottesca immagine di innocenza concepibile. Il cinema americano è dominato da questa volontà di normalizzazione, presente già nella stessa suddivisione in tre atti della narrazione, o nel percorso dell'eroe in un film.


In foto una scena del documentario I Am not your Negro.
In foto una scena del documentario I Am not your Negro.
In foto una scena del documentario I Am not your Negro.

Colpisce il fatto che Bobby Kennedy pronunci parole che, attraverso Baldwin, percepiamo come velatamente razziste. Come mai sceglie proprio un politico democratico come Bobby Kennedy?
Faccio quello che ha fatto anche Baldwin: critico i "buoni". John e Bobby Kennedy, o Bill Clinton più tardi, sono quello che dobbiamo percepire come i buoni. In un mio film ho criticato Clinton, e infatti negli Stati Uniti non molti hanno voluto vederlo. Quando ero giovane e vivevo a Brooklyn c'era una fotografia con i fratelli Kennedy e Martin Luther King: una sorta di trinità indiscutibile, che si poteva solo adorare. Ma sapevo che questa immagine non era totalmente vera, o, meglio, era troppo bella per essere vera.

Il lavoro di montaggio di I Am Not Your Negro è stato enorme. Come è riuscito a creare una coesione in una struttura che da un lato segue il testo incompiuto di Baldwin, con la scansione in tre momenti principali, e contemporaneamente elabora un nuovo discorso?
Traggo beneficio dalla mia esperienza come filmmaker, che mi consente anche una certa autonomia. Per affrontare questo film dovevo essere totalmente libero, sia dal punto di vista produttivo che da quello finanziario, come contenuto e come approccio artistico... Non sapevo quale fosse la fine, ero solo consapevole di inventare qualcosa e di non avere un modello da seguire. Per poterlo fare devi avere lo spazio necessario per provare, ritornare, fare altra ricerca e portare il materiale al tavolo del montaggio. Non puoi girare tutto e poi andare a valutare cosa tenere, il montaggio diviene parte del processo creativo. Per esempio, ho dovuto scrivere tutto il testo prima, per poter avere una struttura d'appoggio. È stato come scrivere il libretto di un'opera, con un inizio, uno svolgimento e una fine. Naturalmente si evolverà ma deve iniziare da qualche parte. Questo libretto però durava tre ore, e quindi ho dovuto tagliare molto. E ho dovuto anche trovare le immagini fondamentali e combinarle con le parole, per creare qualcosa di nuovo, che funzionasse a più livelli. Ho fatto anche altri film nel frattempo, quindi potevo sospendere il montaggio per due mesi e liberare la mente prima di tornarci. C'era sempre qualcuno intento a lavorare al progetto in attesa che tornassi con nuove idee.

Come mai Baldwin è così meno conosciuto di Malcolm X o Martin?
"Probabilmente perché non è morto ammazzato in gioventù come loro...", conclude Peck con una amara risata.


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