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Il comandamento di Fuocoammare: essere cristiano

Rosi, ottimo narratore di realtà, deve sorpassare il documento e fare un film-film.
di Pino Farinotti

Fuocoammare

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Gianfranco Rosi 1964, Asmara (Eritrea). Regista del film Fuocoammare.
lunedì 29 febbraio 2016 - Focus

Le chiavi di lettura di Fuocoammare, di Gianfranco Rosi, Orso d'oro alla Berlinale, possono essere infinite. Lampedusa e i migranti, figuriamoci. Sono più o meno vent'anni che vediamo e ascoltiamo: giornali, televisione, maggioranza e opposizione, ideologia, "socialmente-umanamente-politicamente corretto". E ogni tipo di approfondimento. Mediando fra l'eccesso di informazione e la faziosità delle parti, magari siamo anche riusciti a farci un'idea generale, se non proprio esatta. Tuttavia il dato è semplice: c'è un'isola dove sono passate centinaia di migliaia di vite, mentre alcune migliaia di corpi giacciono sul fondo di quelle poche miglia di mare fra Africa e Italia. E c'è la vita, povera, dettata dal mare, di chi vive là, e assiste a quel passaggio abnorme e a quel tragico, si direbbe "biblico", movimento della Storia. A Lampedusa si accoglie. Vedendo il film, nei primi momenti, il mio spirito professionale, critico, mi è risultato subito inadeguato e fuori luogo. Il termine che comanda, cultura e coscienza, è "cristiano". Lampedusa, Sicilia, Italia, Roma: da noi c'è l'erede fisico e spirituale della divinità, e infatti, papa Bergoglio ha detto "bisogna accogliere". E che altro poteva dire. Le strutture di accoglienza, marina, militari, centri, medici, volontari, sanno cosa sta succedendo e quali saranno gli sviluppi. La marina ascolta i messaggi disperati dai barconi e con calma dà le direttive. È un fatto automatico, "umanamente automatico". Ci sono pronte le mantelline impermeabili, e la prassi del passaggio da una barca (la "carretta") a un'altra barca (la marina) è anche un passaggio di status. A questo punto conta solo l'essere umano. È gente che arriva da tutta l'Africa, dal Sudan, ha passato il Sahara magari bevendo la propria urina per sopravvivere. Molti sono morti, in quel deserto e anche dopo, arrivati in Eritrea, in Somalia, in Libia. Per poi affrontare il Mediterraneo.

E c'è la vita, povera, dettata dal mare, di chi vive là, e assiste a quel passaggio abnorme e a quel tragico, si direbbe "biblico", movimento della Storia.
Pino Farinotti

A Lampedusa, tutto ciò che ho scritto sopra non conta più. Non conta la politica, la parte che sostiene i migranti e quella che non li vorrebbe. Non conta ciò che succederà dopo, dove finiranno i singoli. Se si trascineranno per anni nella struttura di un paesino disponendo di una branda, di un fornello e di qualche euro giornaliero. Se cercheranno di raggiungere la Scandinavia o l'Inghilterra. Se qualcuno finirà nelle spire di qualche mafia. Se altri riusciranno, come si dice, a integrarsi. Se altri porteranno via la casa o il lavoro a un italiano. Conta il momento in cui vengono salvati. Poi si passerà la mano. Ma a Lampedusa la mano si ferma. E vale il comandamento solidale cristiano. Semplice. Parallele sono le vicende di un preadolescente, un medico, una famiglia autoctona. Il ragazzino - De Sica sarebbe impazzito per lui - gioca con la fionda, cerca i nidi fra gli arbusti di notte, va in mare col padre, mangia la pastasciutta, va a scuola, gli viene diagnosticato un "occhio pigro", dovrà curarsi per guarirlo: è la metafora della collettività europea, e oltre, che non vuole "vedere" il problema e la tragedia. C'è anche un eroe vero, il medico di Lampedusa. Ne ha viste di tutti i colori e continua a mantenere intatti dedizione e umanità. Tutto questo viene raccontato in silenzio, nuda verità, nessuna indicazione, nessuna chiacchiera. Niente piccolo schermo. È il grande valore del documentario.


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