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martedì 12 settembre 2017
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gli eroi riluttanti
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Non sono abbastanza esperto per discutere il film dal punto di vista tecnologico, mi limito quindi a una lettura "classica", valuto il film nel rapporto tra sceneggiatura e regia, cercando di coglierne i motivi di fondo. Flags of our fathers è una pietra miliare nell'indagine sulle relazioni tra guerra e spettacolarizzazione della guerra a uso interno. Ma eravamo durante la seconda guerra mondiale, i meccanismi mediatici erano meno sofisticati e gli States cominciavano solo allora, timidamente, a perdere la loro innocenza (che veramente avevano prima tanto immacolata?). Clint Eastwood è stato coraggioso ed efficace nel mostrare che nemmeno allora le cose erano tanto limpide quanto la propaganda affermava.
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Non sono abbastanza esperto per discutere il film dal punto di vista tecnologico, mi limito quindi a una lettura "classica", valuto il film nel rapporto tra sceneggiatura e regia, cercando di coglierne i motivi di fondo. Flags of our fathers è una pietra miliare nell'indagine sulle relazioni tra guerra e spettacolarizzazione della guerra a uso interno. Ma eravamo durante la seconda guerra mondiale, i meccanismi mediatici erano meno sofisticati e gli States cominciavano solo allora, timidamente, a perdere la loro innocenza (che veramente avevano prima tanto immacolata?). Clint Eastwood è stato coraggioso ed efficace nel mostrare che nemmeno allora le cose erano tanto limpide quanto la propaganda affermava. Ma ora siamo in un tritacarne molto più efficiente, il film risulta graffiante ma deve poi concedere qualcosa al pubblico ma in questa consapevolezza disincantata sta la forza dissacratoria dei personaggi. Essi sanno cosa stanno cedendo. Sanno ma non possono agire diversamente. Raramente ho sentito in un film USA una frase come: "Siamo un popolo di bambini che deve andare all'estero per crescere". Alla fine questi soldati si sentono il capro espiatorio di una gigantesca operazione di rinsaldamento e pacificazione della coscienza nazionale. Combattono ma il senso della guerra appartiene ad altri, che decidono quante briciole assegnare loro perché continuino a fare la loro parte. E il montaggio alternato tra presente e operazione "eroica" mina le certezze e ripropone, aggiornato ai tempi, il tema di sempre, la nevrosi cronica che molti di questi giovani uomini non si scrolleranno più da dosso. La risposta, anche nel film, è: siamo soldati. Ma le inquadtature di Lee ele ottime interpetazioni di Billy e del sergente suggeriscono che nemmeno loro ci credano poi tanto.
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gianleo67
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martedì 19 dicembre 2017
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welcome back home billy
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Eroe per caso dopo essere stato filmato durante l'azione di salvataggio di un commilitone caduto in battaglia, il giovane Billy Lynn rientra dall'Iraq per un tour celebrativo che porterà il suo squadrone in giro per il paese. La partita dell'NFL alla quale dovrà presenziare nel suo ultimo giorno prima della partenza per il fronte, sarà l'occasione per confrontarsi con alcune questioni familiari lasciate in sospeso e per trarre il faticoso bilancio di un'esperienza dolorosa e contraddittoria. La retorica delle contraddizioni di un circo mediatico in cerca di business e consenso elettorale sulla pelle di una generazione mandata allo sbaraglio nell'Iraq della seconda guerra (santa) all'infedele Saddam, è il ghiotto pretesto per il cinema mainstream di un Taiwanese che ha capito benissimo come funziona dalle parti di Hollywood, con una facile contaminazione tra le velleità didascaliche del cinema impegnato ed una riflessione a tutto campo sulla dialettica tra la drammatica realtà della guerra e la sua rappresentazione ad uso e consumo della masse.
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Eroe per caso dopo essere stato filmato durante l'azione di salvataggio di un commilitone caduto in battaglia, il giovane Billy Lynn rientra dall'Iraq per un tour celebrativo che porterà il suo squadrone in giro per il paese. La partita dell'NFL alla quale dovrà presenziare nel suo ultimo giorno prima della partenza per il fronte, sarà l'occasione per confrontarsi con alcune questioni familiari lasciate in sospeso e per trarre il faticoso bilancio di un'esperienza dolorosa e contraddittoria. La retorica delle contraddizioni di un circo mediatico in cerca di business e consenso elettorale sulla pelle di una generazione mandata allo sbaraglio nell'Iraq della seconda guerra (santa) all'infedele Saddam, è il ghiotto pretesto per il cinema mainstream di un Taiwanese che ha capito benissimo come funziona dalle parti di Hollywood, con una facile contaminazione tra le velleità didascaliche del cinema impegnato ed una riflessione a tutto campo sulla dialettica tra la drammatica realtà della guerra e la sua rappresentazione ad uso e consumo della masse. Il Panem et Circenses dell'ultimo Ang Lee, tratto dal best seller di Ben Fountain, è quello che riproduce nel classico agone di una fossa dei leoni dello sport nazionale di maggior richiamo, la convergenza delle tematiche più care al cinema liberal antimilitarista insieme a quelle altrettanto sfruttate delle sirene e delle edulcorazioni del quinto potere. Soggetto facile facile che Lee incentra sulla figura interpretata da un giovane esordiente che, come il suo personaggio, ha parecchie consonanti nel nome e lo sguardo da bamboccione di bell'aspetto del South West alla Zac Efron (The Lucky One), facendosi aiutare dalla coralità altmaniana del racconto e da una struttura a flashback che triplica le linee della narrazione (fronte, casa, stadio) come altrettante trincee di uno scontro esiziale contro nemici che sembrano assediarlo da tutte le parti: dall'ostracismo paterno agli orrori della guerra, dalle lusinghe dello showbiz alle moine delle cheerleaders, dai sensi di colpa verso la sorella al (senso di corpo) cameratismo verso i commilitoni. La vera battaglia però è quella che sembra combattersi tra una sceneggiatura di scontata fureria hollywoodiana ed una messa in scena che traduca la corrosiva ironia del racconto nella metafora non banale delle spietate contraddizioni della società americana, tra alimentari vocazioni militariste e la cinica monetizzazione di una ecatombe generazionale. Battaglia persa, ad avviso di chi scrive, per un registro che si assesta sulla monotonia di un dramma personale senza mordente, sul tracciato asistolico di un ritmo che disperde molte energie nella frammentazione del montaggio e sulla antispettacolarità delle soluzioni visive (non ostante il profluivo di 3D, 4K, 120fps), appena riscattate dalle drammatiche sequenze dell'episodio bellico ("E la 50? Da qualche parte ho letto che ha fatto tutte le guerre dagli anni '20; com'è quella?" - "Se prendi uno con la calibro 50 lo vaporizzi; diventa...una nebbiolina rosa") che viene rivisto da più punti di vista diversi durante tutto l'arco del film. Insomma pochi sussulti di sano sarcasmo yankee dispersi nel mare della retorica antisistema e della solita drammaturgia del patetico non riscattano il film indeciso tra patemi familiari e pietismi nazionali che l'autore finisce inevitabilmente per mettere in campo. Per dire Vin Diesel, non ostante le poche scene recitate, è quello col personaggio che convince di più. Presentato al New York Film Festival 2016, viene piazzato al 10 posto tra i migliori film del 2017 dai Cahiers du Cinéma. Mah!
Sgozzalo Billy, sgozzalo ancora....
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felicity
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mercoledì 17 febbraio 2021
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non si eleva mai dal banale e dal previsto
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Un film anomalo Billy Lynn, eppure allo stesso tempo così facilmente inquadrabile e prevedibile.
Billy Lynn vede al centro della scena il suo omonimo e diciannovenne protagonista (interpretato dal convincente Joe Alwyn al suo esordio sugli schermi), occhi azzurri e languidi, soldato della squadra Bravo distintosi in una pericolosa azione di guerra nel tentativo di salvare il proprio sergente dal nemico.
Ciò a cui assistiamo è la giornata durante la quale, assieme ai suoi commilitoni, deve presenziare al tradizionale Halftime Show della partita di football del Giorno del ringraziamento. Accolti come degli eroi, ma vittime dei propri traumi, i militari vivranno l’evento come fosse nient’altro che l’ennesima missione di guerra, addestrati come sono nel risultare altro da sè: macchine spietate in battaglia o eroi dal viso pulito in pubblico.
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Un film anomalo Billy Lynn, eppure allo stesso tempo così facilmente inquadrabile e prevedibile.
Billy Lynn vede al centro della scena il suo omonimo e diciannovenne protagonista (interpretato dal convincente Joe Alwyn al suo esordio sugli schermi), occhi azzurri e languidi, soldato della squadra Bravo distintosi in una pericolosa azione di guerra nel tentativo di salvare il proprio sergente dal nemico.
Ciò a cui assistiamo è la giornata durante la quale, assieme ai suoi commilitoni, deve presenziare al tradizionale Halftime Show della partita di football del Giorno del ringraziamento. Accolti come degli eroi, ma vittime dei propri traumi, i militari vivranno l’evento come fosse nient’altro che l’ennesima missione di guerra, addestrati come sono nel risultare altro da sè: macchine spietate in battaglia o eroi dal viso pulito in pubblico.
Il susseguirsi di incontri, più o meno formali, tra stampa, spettatori, impresari e imprenditori, è intervallato da continui flashback riguardanti il passato di Billy: il rapporto con la sorella, il ricordo del sergente assassinato e il costante rimbombo delle granate irachene. Fa da filo conduttore la contrattazione tra l’agente e i produttori cinematografici hollywoodiani interessati ad una trasposizione su grande schermo della storia di Billy; da contorno la superficiale storiella sentimentale dello stesso Billy con una cheerleader.
Il tutto è giostrato sul parallelismo continuo tra la violenza della guerra e la superficialità con la quale essa viene percepita da chi non l’ha vissuta; non c’è però una vera progressione drammaturgica e il procedimento risulta più per accumulo. La conseguenza inevitabile è l’eccesso, retorico, nel quale il film gradualmente finirà per naufragare. Una successione senza soluzione di continuità di dialoghi desolanti che esprimono, sì, il vuoto e l’inadeguatezza di chi li pronuncia, ma sono nello stesso tempo incapaci di scavare realmente a fondo nella psicologia dei personaggi.
Molti sono infatti, nel film, i ruoli secondari stereotipati, privi di una vera tridimensionalità e facilmente dimenticabili.
Nonostante tutto la regia di Ang Lee si rivela a tratti molto efficace, soprattutto quando, al culmine della cerimonia, i militari marciano in direzione del palco al centro dello stadio, più che mai straniati da un’atmosfera festante e chiassosa, in cui i fuochi d’artificio non possono che far riaffiorare alla mente il ricordo delle bombe, e il rullo di tamburi il suono dei colpi delle mitragliatrici. E’ qui che i movimenti di macchina si fanno più spettacolari, seguendo, aggirando e avvolgendo Billy e i suoi compagni, mentre il volume della musica e dei rumori si fa sempre più assordante: il tutto concorre nel metterci nella stessa situazione di disagio dei protagonisti, traghettando il nostro percorso emotivo con lo sguardo allucinato ed impotente del protagonista.
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