taniamarina
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martedì 20 novembre 2018
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tutto il mondo è paese
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Facce pulite come quelle di Jafar spuntano fuori soltanto in stati in cui pene capitali e guerre imperversano sui cittadini. Già solo la sua espressione potrebbe essere annoverata come una attendibile testimonainza di una rivoluzione cinematografica, proprio quella che avviene per mano sua a Teheran. Il gioco tra finzione realtà è affascinante, e forse la recitazione degli attori - che non dà affatto l'impressione di essere spontanea - è strategicamente voluta. Il cinema è finzione o la realtà si fa cinema? Un dubbio atavico che di tanto in tanto è bene ricordare, e succede in questa bella pellicola di rottura che un po' ricorda i fasti del neorealismo italiano.
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Facce pulite come quelle di Jafar spuntano fuori soltanto in stati in cui pene capitali e guerre imperversano sui cittadini. Già solo la sua espressione potrebbe essere annoverata come una attendibile testimonainza di una rivoluzione cinematografica, proprio quella che avviene per mano sua a Teheran. Il gioco tra finzione realtà è affascinante, e forse la recitazione degli attori - che non dà affatto l'impressione di essere spontanea - è strategicamente voluta. Il cinema è finzione o la realtà si fa cinema? Un dubbio atavico che di tanto in tanto è bene ricordare, e succede in questa bella pellicola di rottura che un po' ricorda i fasti del neorealismo italiano. La grande città occidentalizzata ma radicata nella cultura mediorientale, ha in sé il germe della democrazia e della libertà di stampa. Una grande città che somiglia così tanto a Napoli, con le sue culture contraddittorie tra intelligenza, arte, superstizione e borseggi. Tutto il mondo è paese? Sarà... sta di fatto che Jafar è bravissimo nel ricordarcelo. Bel film, e grazie a Mymovies per lo streaming.
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iltrequartista
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giovedì 6 luglio 2017
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il coraggio di jafar
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Quando ingiustamente ti condannano, ma continui ad andare dritto per la tua strada,poco contano premi e nomination,hai già stravinto a livello personale e morale.
Jafar merita un nostro lungo applauso , per il coraggio dimostrato, e non basterebbero cinque stelle su un sito web a sottolineare quanto siamo dalla sua parte.
Finoa questo punto credo che siamo tutti d'accordo.
Su quest'opera cinematografica in quanto tale,non sento di condividere lo stesso entusiasmo.
La fotografia è eccellente,come l'idea del taxi che si aggira nella città per descriverne l'essenza e per interagire direttamente con il popolo,ma spesso si assiste ad una serie di lunghe scene scollegate a livello narrativo.
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Quando ingiustamente ti condannano, ma continui ad andare dritto per la tua strada,poco contano premi e nomination,hai già stravinto a livello personale e morale.
Jafar merita un nostro lungo applauso , per il coraggio dimostrato, e non basterebbero cinque stelle su un sito web a sottolineare quanto siamo dalla sua parte.
Finoa questo punto credo che siamo tutti d'accordo.
Su quest'opera cinematografica in quanto tale,non sento di condividere lo stesso entusiasmo.
La fotografia è eccellente,come l'idea del taxi che si aggira nella città per descriverne l'essenza e per interagire direttamente con il popolo,ma spesso si assiste ad una serie di lunghe scene scollegate a livello narrativo.
I dialoghi sono chiaramente costruiti ad arte per attaccare il governo(lo avrei fatto anche io al posto del regista,sia chiaro) ma finiscono per dare il senso di poca veridicità.
Tutto sembra programmato accuratamente,sfociando talvolta in noia e lentezza e si perde la verve narrativa che una pellicola girata in strada avrebbe dovuto avere.
A supporto di quanto detto la lunghissima sequenza in cui la nipotina legge i divieti integralisti sul quaderno di scuola,cose che spulciando in rete potete trovare tranquillamente da soli.
Letti da una bambina ovviamente faranno più effetto e così via per altre scene.
In sintesi,almeno in questo caso, stimo Panahai più per l'uomo che per il regista e non credo di fargli torto.
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filippo catani
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sabato 7 gennaio 2017
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ribellarsi alla censura
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Il regista Panahi sfida il divieto del regime di non girare più film pena la detenzione salendo su un taxi e immortalando le storie dei passeggeri che salgono.
Ci vuole coraggio per sfidare qualsiasi tipo di regime; se poi lo si fa con il sorriso sulle labbra è ancora meglio. Ecco allora che Panahi armato di una piccola camera ci racconta attraverso le parole dei suoi passeggeri quello che è vivere in Iran e quello che si deve fare per attingere a libri e film proibiti. Il momento emblematico è ovviamente quando la giovanissima nipote del regista impegnata nella registrazione di un cortometraggio gli elenca quelli che sono i precetti per fare un film che sia accettabile.
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Il regista Panahi sfida il divieto del regime di non girare più film pena la detenzione salendo su un taxi e immortalando le storie dei passeggeri che salgono.
Ci vuole coraggio per sfidare qualsiasi tipo di regime; se poi lo si fa con il sorriso sulle labbra è ancora meglio. Ecco allora che Panahi armato di una piccola camera ci racconta attraverso le parole dei suoi passeggeri quello che è vivere in Iran e quello che si deve fare per attingere a libri e film proibiti. Il momento emblematico è ovviamente quando la giovanissima nipote del regista impegnata nella registrazione di un cortometraggio gli elenca quelli che sono i precetti per fare un film che sia accettabile. Inevitabilmente ad ogni prescrizione è come aggiungere un anello alla catena della censura che ogni regime deve cercare di mantenere. Un film coraggioso e di grande impatto giustamente premiato a Berlino.
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riccardo tavani
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venerdì 25 novembre 2016
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il cinema come pelle dell'umanità sotto la dittatu
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Jafar Panahi è stato condannato dai tribunali iraniani a 20 di proibizione a girare film, scrivere copioni e rilasciare interviste, pena la detenzione a 6 anni di prigione. Panahi nelle galere del suo paese già c’è stato e in esse ha subito anche botte e maltrattamenti vari. Nonostante questo continua a fare film, trovando sempre il modo di aggirare la censura e il fiato degli agenti che lo marcano strettamente. Anzi, aggirare la censura, la repressione, le minacce è ormai diventato la cifra del suo stile di vita e d’arte. Lo dimostra con questo Taxi Teheran, meritatissimo Orso D’Oro al Festival di Berlino 2014, mettendoci non solo la firma come regista ma anche la faccia come attore.
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Jafar Panahi è stato condannato dai tribunali iraniani a 20 di proibizione a girare film, scrivere copioni e rilasciare interviste, pena la detenzione a 6 anni di prigione. Panahi nelle galere del suo paese già c’è stato e in esse ha subito anche botte e maltrattamenti vari. Nonostante questo continua a fare film, trovando sempre il modo di aggirare la censura e il fiato degli agenti che lo marcano strettamente. Anzi, aggirare la censura, la repressione, le minacce è ormai diventato la cifra del suo stile di vita e d’arte. Lo dimostra con questo Taxi Teheran, meritatissimo Orso D’Oro al Festival di Berlino 2014, mettendoci non solo la firma come regista ma anche la faccia come attore. Panahi s’infila in un taxi giallo come autista e comincia a girare la città e il film, facendo salire a bordo persone, le quali, con le loro vicende umane, riflettono la realtà della dittatura che incombe anche nei minimi gesti e parole della quotidianità. C’è da precisare che anche tutti coloro che hanno partecipato al film e appaiano sullo schermo, rischiano seriamente la repressione e per questo i loro nomi sono omessi nei titoli di coda.
La struttura drammatica del film eleva la proibizione cui è costretto a cifra stilistica, fondata sulla massima semplicità e rigore narrativo. La scena si svolge – e non può essere diversamente – solo dentro il taxi o a pochi metri attorno a esso. Nei dialoghi tra il taxista e i suoi passeggeri-attori emergono la pervasività e l’assurdità delle regole cui devono sottostare le persone e il continuo ricorso a stratagemmi per aggirarle. In questo senso il film stesso è davvero un personaggio della normale vita quotidiana degli iraniani, costretto com’è a ricorrere a espedienti per esprimersi attraverso l’immagine, la parola, il comportamento. Questa è la vera genialità dell’opera: essere la carne e la pelle stessa delle persone, delle vicende, delle realtà che mette in scena.
Panahi metta a tema narrativo anche la diffusione capillare dei media tecnologici di registrazione acustica e visiva: cellulari, tablet, macchinette fotografiche digitali. Attraverso il dialogo, ironicamente pungente, con una sua nipote adolescente, il regista svolge una vera lezione, rivolta a tutti, d’impegno cinematografico quotidiano, spiegando come si può beffare la censura o far emergere, anche da normali scene di strada, le imposizioni repressive della dittatura. Il cinema, non solo quello di Panahi, non può essere fermato, perché ormai le sue possibilità di espressione sono incapsulate dentro i minimi congegni della tecnologia contemporanea (e lo saranno sempre di più), dalla quale l’Iran non può certo isolarsi, pena la castrazione del suo stesso sviluppo e ruolo strategico sulla scena del mondo. Così come un passeggero può riprendere con il telefonino un uomo ferito caricato sul taxi per portarlo all’ospedale, chiunque può riprendere una scena di repressione all’angolo di una via, e, anzi – questo è l’invito silenziosamente implicito – portare la scena al regista, che la riverserà e monterà insieme ad altre, per mostrarla al mondo.
Sosteniamolo questo maestro del cinema, lo merita in tutti i sensi, e quello che ci offre – come artista e persona – non è certo poco.
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obaoap
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domenica 11 ottobre 2015
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noia pura
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Nonostante il significato politico, il film è di una noia totale. Tralasciando il fatto che vi siano altri messaggi politici più rilevanti da cogliere nell'iran che censura e perdonano il regista per il costretto metodo di ripresa, i dialoghi vacillano e la palpebra cala. Noia.
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enrico danelli
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sabato 10 ottobre 2015
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politica, non cinema.
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Va bene. Un bel reportage sulla situazione sociale dell'Iran, comunque sconosciuta ai più. Una grande prova di coraggio del regista che rischia di suo. Ma poi ? Se si deve valutare un articolo di giornale, un video su yuotube i suddetti ingredienti (coraggio e novità) bastano e avanzano per farne un lancio mondiale. Se si deve valutare un film non ci si può limitare a così poco. La trovata dello specchio segreto è piuttosto obsoleta e contrasta miseramente con le artificiali comparsate che via via si susseguono sul taxi: chiunque capisce che non c'è nulla di naturale e gli attori (cui va riconosciuto il coraggio di sfidare il regime insieme al regista) non sono proprio all'altezza della spontaneità che sarebbe loro richiesta.
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Va bene. Un bel reportage sulla situazione sociale dell'Iran, comunque sconosciuta ai più. Una grande prova di coraggio del regista che rischia di suo. Ma poi ? Se si deve valutare un articolo di giornale, un video su yuotube i suddetti ingredienti (coraggio e novità) bastano e avanzano per farne un lancio mondiale. Se si deve valutare un film non ci si può limitare a così poco. La trovata dello specchio segreto è piuttosto obsoleta e contrasta miseramente con le artificiali comparsate che via via si susseguono sul taxi: chiunque capisce che non c'è nulla di naturale e gli attori (cui va riconosciuto il coraggio di sfidare il regime insieme al regista) non sono proprio all'altezza della spontaneità che sarebbe loro richiesta. Urtante la presenza della bambina (nipote del regista) tanto saputella e saccente che, se vogliamo, ottiene l'effetto opposto: il regime è comunque capace di generare esseri umani pensanti e culturalmente molto evoluti (In Italia abbiamo tali prototipi in così tenera età ?). Per il resto dialoghi triti e ritriti sulla pena di morte che non risolve il problema della criminalità (li sentiamo da decenni), sulla condizione delle donne nel mondo islamico e sulle situazioni famigliari e personali delle comparse. Simpatica la presenza del regista con il suo faccione bonario e sorridente. Eccelso il significato, comunque ormai usato e abusato da tutta la cinematografia mondiale, sulla potenza dei mezzi di informazione. Viva la libertà (anche quella di critica della critica).
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zarar
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domenica 27 settembre 2015
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lo sguardo di un regista clandestino
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E’ un film che ha tutti i caratteri di altre opere di Jafar Panahi: su di uno sfondo che si indovina drammatico, la vita (e il film stesso) scorre minimalista, gentile, divagante, casuale, un po’ folle, un po’comico persino, in un tempo dai ritmi lunghi anche dove c’è concitazione. Il fondo oscuro emerge a tratti , con lampi improvvisi, segnali di allarme che increspano la superficie: il regista sorpreso per strada da una voce che gli ricorda la voce di chi l’ha interrogato in carcere, lo sguardo smarrito dell’amico aggredito, il testamento dettato dalla voce strozzata di un ferito, l’interrogativo senza risposta della nipotina che non capisce perché ti chiedano di raccontare la realtà e nello stesso tempo ti impediscano di raccontare la realtà.
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E’ un film che ha tutti i caratteri di altre opere di Jafar Panahi: su di uno sfondo che si indovina drammatico, la vita (e il film stesso) scorre minimalista, gentile, divagante, casuale, un po’ folle, un po’comico persino, in un tempo dai ritmi lunghi anche dove c’è concitazione. Il fondo oscuro emerge a tratti , con lampi improvvisi, segnali di allarme che increspano la superficie: il regista sorpreso per strada da una voce che gli ricorda la voce di chi l’ha interrogato in carcere, lo sguardo smarrito dell’amico aggredito, il testamento dettato dalla voce strozzata di un ferito, l’interrogativo senza risposta della nipotina che non capisce perché ti chiedano di raccontare la realtà e nello stesso tempo ti impediscano di raccontare la realtà. Ma la realtà è più forte delle censure e si impone da sé all’ occhio imperturbabile e sereno, quasi nonchalant del regista-protagonista: durezza dell’oppressiva dittatura islamica, da una parte, dall’altra vitalità ‘leggera’, ma anche tenace e intelligente, moderna e antichissima (i pesciolini rossi simbolo ancestrale della vita e della fine dell’anno astrale) non piegata dalle circostanze. Una protesta non urlata, lasciata tra le righe, ma forse proprio per questo più intensa. Chi ha avuto occasione di andare in Iran e di sentire la gente, e direi soprattutto le straordinarie donne iraniane, sa quanto questo paradosso sia vero e avvertibile ovunque. Girato in condizioni difficili (dal 2010 Panahi – come oppositore del regime - è stato condannato nel suo paese a non produrre e/o dirigere film, a non viaggiare e rilasciare interviste per 20 anni) questo lavoro clandestino ha dunque un suo perché, anche se a mio parere gli manca la scioltezza e la struttura solida di un’opera pienamente realizzata. Ciò che rimane dentro alla fine del film, più dei singoli episodi che si snodano lungo la corsa del taxi per le strade di Teheran, è lo stesso protagonista, attore per caso: in quel suo volto tranquillo ed empatico, in quel parlare pacato appena appena ironico, in quel venire incontro senza enfasi a chiunque abbia una difficoltà è il suo cinema: impegno civile, sguardo libero e fermo, alieno da drammatizzazioni e tempeste emotive, ma totalmente empatico con il suo contesto.
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gpistoia39
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martedì 22 settembre 2015
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tutto il mondo è paese
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Non so usare parolone, questo film è bellissimo, siamo usciti da cinema felici, soddisfatti. Jafar Panahi dici tutto quello che c'è da dire sull'Iran in 1 ora e 22 minuti. Dice tutto e fa capire tutto a tutti guidando sempre in un ipotetico taxi mentre scorrono le immagini di una modernissima e bella città.
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miguel angel tarditti
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domenica 13 settembre 2015
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el arte se filtra como el agua
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EL ARTE SE FILTRA COMO EL AGUA
CUANDO LA SOCIEDAD ES MAS CARCEL QUE LA CARCEL
“TAXI TEHERAN”, del Iraní Jafar Panahi.
Jafar Panahi está condenado por la “justicia” de Irán a 20 años de prohibición de filmar. Tampoco puede escribir guiones ni conceder entrevistas pena de ser detenido por seis años. Esto no es ficción es realidad.
Pero como sabemos por experiencia propia (léase Teatro Abierto en el periodo negro de la usurpación del poder militar), el arte tiene siempre un modo de manifestarse, como el agua que no puede ser fácilmente reprimida si pierde su cauce.
Porque el Arte es bandera de libertad, y ésta se puede reprimir, suspender, cercenar, pero finalmente escapa, corre, dice, grita, subleva, riega, hace crecer.
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EL ARTE SE FILTRA COMO EL AGUA
CUANDO LA SOCIEDAD ES MAS CARCEL QUE LA CARCEL
“TAXI TEHERAN”, del Iraní Jafar Panahi.
Jafar Panahi está condenado por la “justicia” de Irán a 20 años de prohibición de filmar. Tampoco puede escribir guiones ni conceder entrevistas pena de ser detenido por seis años. Esto no es ficción es realidad.
Pero como sabemos por experiencia propia (léase Teatro Abierto en el periodo negro de la usurpación del poder militar), el arte tiene siempre un modo de manifestarse, como el agua que no puede ser fácilmente reprimida si pierde su cauce.
Porque el Arte es bandera de libertad, y ésta se puede reprimir, suspender, cercenar, pero finalmente escapa, corre, dice, grita, subleva, riega, hace crecer.
La libertad, el libre albedrío, sufre en su manifestación externa cuando el prepotente ostenta el poder omnímodo, irracional, tiene las armas, impone su fuerza.
Pero la prepotencia no es inteligente como el arte.
El arte es sutil (la prepotencia es fuerza), el arte es metáfora (la prepotencia no sabe de metáforas), el arte con una dulce sonrisa puede hablar de un dolor (la prepotencia no sabe de dulzuras).
Las sociedades represoras crean leyes que impiden la libre expresión; reglas, especie deformadas de leyes que sólo protegen sus mezquinos intereses de tiranía, desvirtuando el sentido ético de la ley que fue creada para proteger al ciudadano.
Pero el arte es imaginación e inteligencia y siempre es más fuerte porque no puede ser fácilmente frenado como no lo es el agua que drena.
A veces el poder tiránico gana en tiempo y dificulta, hiere, ofende, encarcela, pero el tiempo siempre tiene su vencimiento (por eso es tiempo) y se desgasta, y se auto elimina, salvo que sea eternidad, pero la eternidad pertenece al Arte y no al invasor prepotente. El Arte, si es arte, es eterno.
Jafar Panahi, director iraní, mal tratado por su sociedad, es inteligente y creativo, y se ingenia una estrategia para poder igualmente filmar, para evitar los ojos policiacos de sus “justicieros”, y se vuelve un taxista, que sólo filma dentro de su taxi, con una cámara oculta, y sus pasajeros “circunstanciales” hablan de tanto: justicia, leyes, vida, muerte, ética, moral, dándonos una fotografía de una sociedad que reprime, paradójicamente, más que la misma cárcel.
No son pasajeros auténticos los de su taxi, son actores, actores que se arriesgan a participar de este interesante film que denuncia, que milita por una causa justa, donde los ciudadanos, los artistas, los hombres sean respetados en su sentir, en su pensar, en su expresar.
Entiendo que es pedir mucho para ciertos regímenes a los que la libertad de expresión molesta porque el saber revela. El conocimiento crece al hombre.
Entiendo que puede ser utópico como la sociedad ideal de Platón, pero ese es el modelo hacia donde debemos apuntar, por el que debemos luchar.
Gracias a Jafar Panahi por luchar con inteligencia y regalarnos este trabajo interesante, y gracias a los actores (que no pueden figurar en el elenco para no ser reprimidos) por atreverse a enfrentar la deleznable prepotencia del sistema.
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