Tangerine

Sin-Dee, prostituta transessuale, è uscita di prigione e ha un solo desiderio, rivedere Chester, fidanzato e protettore. Davanti a una ciambella glassata e ad Alexandra, amica del cuore che come lei si prostituisce sui marciapiedi di Los Angeles, scopre però l'infedeltà di Chester. Delusa e furiosa, Sin-Dee è decisa a trovare la rivale e a vendicare il tradimento subito. Lanciata come una furia sulle strade assolate di West Hollywood, Sin-Dee stana Chester e la sua nuova amica 'celebrando' con loro un'insolita vigilia di Natale. Un Natale 'separato' che fa a pezzi cuore e sogni.
È la vigilia di Natale, proprio come in un film di Frank Capra, ma la vita per le protagoniste di Tangerine non è davvero meravigliosa. A un passo da Hollywood e sotto una luce arancione come un mandarino (quello che dona colore e titolo al film), Sin-Dee e Alexandra battono strade che il cinema generalmente ignora. Diretto da Sean Baker e girato con un iPhone 5 (fornito di lenti anamorfiche) e un cast amatoriale (reclutato attraverso YouTube e Vine), Tangerine è un buddy movie ad altezza di marciapiede che cattura la fluidità dei movimenti rapidi e trova un'intimità autentica con gli attori. Un film isterico che infila con falcate nervose, quelle di Kitana Kiki Rodriguez (Sin-Dee), la comunità trans di Tinseltown, quartiere di Los Angeles appeso tra 'fuck' e 'bitch', tra sogni e ormoni. Melange ambizioso di cinema e di cultura televisiva, quello che Tangerine perde in definizione lo recupera in ritmo, sfinendo i corpi ed esaurendo le parole ininterrotte di Sin-Dee.
Incollato alle sue protagoniste, l'una isterica, l'altra placida, Baker svolge una storia vaudevillesque che finisce per travolgere un tassista 'trans-addicted', un pappone e una "real fish" (fuori dal gergo, una donna con una 'vera vagina'). Ma risolte le peripezie e spenti i legittimi furori della protagonista, il film lascia filtrare la realtà e la sua gravità. Sedute in fondo alla giornata e sullo sfondo di una lavanderia automatica, le due amiche si scambiano parrucca e disillusioni: Sin-Dee non incontrerà mai l'amore premuroso che da sempre attende e Alexandra, cantante modesta, non diventerà mai la Melody Gardot dei suoi sogni.
Avvolto attorno alle sue eroine fuori norma e dotate di una fotogenia insolente, Tangerine centra lo spettatore con una debordante energia che contempla tuttavia bolle di malinconia davanti a una sala vuota o dentro un salotto svuotato. La maniera in cui Baker scontra a tutta velocità le corse di un tassista armeno e la corsa delle protagoniste guadagna poi al film la bellezza (e la pienezza) dell'assurdo. Perché Tangerine non confronta un principio maggioritario con una trasgressione minoritaria, preferendo il faccia a faccia dentro i 'margini' e l'emarginazione. Kiki Rodriguez e Mya Taylor al loro debutto sullo schermo e al di là della distanza che le separa dai loro personaggi, affermano una presenza e si affermano con una personalità prorompente, che nessuna misura scenografica può sopraffare o ridurre di scala. Svettanti, elastiche, luminose e perpetuamente sull'orlo di una crisi di nervi o di smarrimento, le protagoniste sono pedinate con una foga iperrealista prossima all'opera di Mark Neveldine e Brian Taylor (il dittico Crank). Los Angeles, aliena alla visione declinante di Paul Schrader (The Canyons) o Terrence Malick (Knight of Cups), è un corpo vivo ed elettrico, sferzato da musica elettronica, baciato da una scala di gialli, inghiottito dal tramonto e percorso per lungo e per largo da due attrici senza esperienza che vampirizzano la minicamera vorace di Sean Baker.
Sono loro le regine di un film rotondo come una ciambella, che espande lo spirito solidale della comunità queer, esalta la bellezza dei corpi ibridi, afferra la musicalità del pop-slang. Sono loro le stelle di una 'walk of fame' in salita, di un road movie senza motore, perché Sin-Dee e Alexandra misurano la città a piedi, lontano dai tragitti in vettura che accordano a Los Angeles l'impressione di non collocarsi in nessun posto e di galleggiare senza posa. 