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Lezioni di messa in scena

Sicario tra genere e autorialità.
di Roy Menarini

Emily Blunt (41 anni) 23 febbraio 1983, Londra (Gran Bretagna) - Pesci. Interpreta Kate Macy nel film di Denis Villeneuve Sicario.

domenica 27 settembre 2015 - Approfondimenti

È solo per una malintesa vocazione autoriale che il Festival di Cannes 2015 non ha attribuito alcun premio a Sicario di Denis Villeneuve. O meglio - in attesa di vedere tutti i film del palmarès distribuiti in Italia - possiamo affermare che dovranno essere davvero gran cosa per poter superare il regista canadese nella sua prova puramente cinematica.
Sicario è probabilmente limitato da una sceneggiatura azzoppata da troppe, e irritanti, contraddizioni interne, specie nel plot della seconda parte, dove i piani del team d'assalto americano suonano incomprensibili e inverosimili anche applicando una robusta sospensione dell'incredulità. Ma proprio i limiti dello script non fanno altro, alla fine, che esaltare la prova di Villeneuve, che ci ricorda che cosa distanzia un regista qualsiasi da un fuoriclasse.
Essere registi di talento significa, ancora oggi, trovare soluzioni di stile, linguaggio e messa in scena che possano intensificare il racconto, innescare la reazione emotiva dello spettatore, esprimere visivamente gli elementi simbolici che giacciono sullo sfondo della narrazione. Per esempio, in Sicario, Villeneuve opta per due macro-sequenze in grado di fungere da entrata e uscita del film. Non sono propriamente gli incipit ed excipit della pellicola, ma le possiamo considerare portali di ingresso e di risoluzione - non a caso si svolgono entrambi "al confine", il primo in piena luca (con l'apice di una straordinaria sparatoria quasi da fermi durante un ingorgo di automobili) e il secondo nel buio pesto dei tunnel della droga e delle strade nere della notte messicana. Villeneuve non si nasconde nei fatti, piuttosto mescola una messa in scena geometrica con riprese celibi, ottenute da droni, visori notturni, occhiali a infrarossi, mirini, telecamere di sorveglianza.
Un tempo film come questo, opere di genere e insieme riflessioni sul mezzo audiovisivo, erano pane per i denti di Brian De Palma e altri autori barocchi del postmoderno. Oggi Villeneuve sembra badare più al sodo. Non ci sono troppi fronzoli, conta di più l'atmosfera di tensione e di cupo assedio, martellante e senza soluzione di continuità, piuttosto che il ragionamento metacinematografico. E in effetti, anche le suggestioni ottiche di cui sopra, sono sempre abbandonate in fretta, quasi a temere l'accesso a un livello più astratto.
E allora forse Sicario, oltre che un film solido e ben riuscito, è anche un piccolo progetto di estetica contemporanea, di uscita dall'infinito conflitto tra autorialità e cinema di grande intrattenimento, è uno di quei film che ci dicevano non si potessero più fare, schiacciati tra i blockbuster e il cinema indipendente stile Sundance. Che cosa lo eleva dalla media? La messa in scena, appunto, frutto di un talento che ci ricorda come le operazioni di regia esistano ancora, sebbene i critici se lo stiano dimenticando spesso, tutti presi dalla lettura dei significati e dei messaggi.
Qui di messaggio, come nel Villeneuve più recente, ce n'è uno solo: l'America è sempre in guerra. Ovunque. Evitando sermoni e paternali col dito alzato, Villeneuve trasforma il conflitto in stilizzazione e paura, facendoci sibilare le pallottole vicino alle orecchie e facendoci tremare insieme alla protagonista (interpretata con sensibilità da una Emily Blunt sempre più convincente). E quando poi si ha un musicista come Jóhann Jóhannsson per la colonna sonora, anche il primato della messa in scena è più facile da conquistare.

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