Per dare una lettura di questo film mi sento di rifarmi a due passaggi uno quasi all’inizio del film e uno semplicemente la scena finale: In uno dei primi spezzoni un grande John Turturro che interpreta il divo americano del film dentro il film di Moretti si avventura durante una cena su una terrazza romana in un minisaggio sul cinema e sul suo poter essere letto su piani diversi , io in poltrona dopo 20 minuti li avevo i intuiti questi piani pur chiamandoli diversamente, registri diversi, ma la sostanza non cambia: dice uno splendido Turturro nella parte di un divo americano, viziato pazzoide e tarantolato e sempre sul punto di esplodere che un film gira sempre intorno a piani diversi si avvita su se stesso si confonde e poi ritorna a sè stretto sulle storie, che è poi forse il senso del cinema e dell’arte, il piacere di narrare di stupire ed emozionare. Questo fa il film, una specie di scrittura circolare e di piani contrapposti. C’è il piano del cinema dentro il cinema, c’è il sociale qui presente sottoforma della trama del film che la Buy (alter ego del vero regista) cerca di dirigere, un sociale così presente nello sfondo di tutto il cinema di Moretti in epoche passate magari più protagonista, ora in un Moretti più riflessivo, maturo e disincantato forse, intimista e/o metafisico, più rivolto all’ inquietudine e alle grandi domande sulla vita e sulla morte, c’è il piano familiare, gli affetti quelli più veri e profondi, di giovani uomini e donne cresciuti in famiglie “borghesi” con buone e sane relazioni, buone letture ed educazione alla bellezza, la famiglia dalla quale viene Moretti, ci sono anche ed come è normale che sia in alcuni di questi piani evidenti i contrasti che si palesano: L’ingegnere Giovanni che si può permettere di prendere l’aspettativa o addirittura licenziarsi dal lavoro per poter stare vicino alla mamma, (quale grande scelta) ma ad esempio gli operai a rischio di licenziamento del film dentro il film non se lo potrebbero permettere. C’è tutto l’autobiografismo di Moretti, la sua autoanalisi tramite i film e le sue vecchie e nuove ansie ed inquietudini dove tramite la sua arte cerca di rispondere per …liberarsene? C’è l’autocompiacimento auto-ruffianesco Morettiano, Turturro che dice alla Buy regista, “grande…grande grande, grande sensibilità” ( che poi Moretti la ha davvero a capire e mostrare certi moti più o meno silenziosi), c’è il cinema certo, c’è molto amore per il cinema nel film e non solo per il film dentro il film, ma anche le citazioni e gli omaggi, palesi e nascosti ad alcuni grandi maestri, ci sono i tic e le ossessioni del mondo del cinema, le sue nevrosi e gli inghippi di lavorazione, l’impossibilità di viverci e di uscirne fuori allo stesso tempo (Turturro il divo che dice di voler tornare nel mondo reale), il dolore per i cinema vuoti, (a proposito eravamo in due dico due, nella sala multiplex che stranamente passava il film che ho visto ieri), questo nella scena da contrappasso della interminabile fila all’ ingresso di un cinema, c’è anche in questo tutto l’autobiografismo di Moretti, il suo ruolo di cineasta, di artista che nella sua torre d’avorio ormai consapevolmente lontana dal poter essere in grado di raccontare “qualcosa” della società, sua la confessione di non esserne in grado, anche fosse anche solo per interpretarla e non per cambiarla (sono lontani i bei tempi dei girotondi) e qui appare l’analisi su sé stesso del regista Buy-Moretti la riflessione sul suo ruolo e sull’amor proprio ferito, nel copione nella scena dell’ex amante di Margherita al chiosco che le sputa in faccia il suo giudizio, amor proprio ferito forse proprio come ognuno di noi perso nelle proprie vicende umane e nascosti nelle nostre occupazioni, registi, come metalmeccanici, cicloamatori o avvocati o che ne so io e che una volta scavati e aperti a puntino ci appariamo fragili e indifesi e magari anche un pò bruttini.
L’altro passaggio è la scena finale che ci apre alla speranza comunque e allo stesso tempo è un grande atto di amore per la madre in un film che in fondo è sulla madre pur essendo molte altre cose:“Mamma a che pensi?” “ A domani” E’ la promessa di un altro capolavoro? È l’atto di amore più forte verso una madre che non c’è più e che qui parla con la voce del figlio…volendosela in questo modo sentire vicina ancora in qualche modo? Quella frase è comunque molte cose e in ogni caso una grande opera di elaborazione del lutto, grande lutto, grande film che un artista ha la fortuna di poter in modo così ardito e complesso e terribilmente semplice allo stesso momento potuto attuare, con amore e con arte
Accompagnare l’attore e il personaggio o qualcosa del genere dice Margherita, Moretti ha accompagnato se stesso ed un po’ c’è e un po’ ci fa come è normale che sia, parla di questa inquietudine come pure aveva fatto in Habemus Papam e del tema dell’inadeguatezza e del suo rappresentarla dopo averla sentita e vissuta ne ha fatta una occupazione, un arte, un lavoro, sfruttandola anche come una liberazione, da un lutto e da molte altre cose, ne ha fatto un film, un 8 e ½ in salsa tardomorettiana. Complimenti maestro. Noi intanto (a domani) aspettiamo, a dispetto della stanchezza, dei dubbi, del tempo che passa.
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