The Great Game

Pierre Blum è uno scrittore quarantenne che dieci anni prima aveva raggiunto il vertice delle classifiche di vendita con il suo romanzo d'esordio per poi ripiombare nel dimenticatoio. Incontra una sera Joseph Paskin il quale finge di non conoscerlo mentre invece ha un obiettivo ben chiaro: invitarlo a scrivere come ghost writer al fine di creare scandalo a proposito della figura del ministro dell'interno per spingerlo alle dimissioni. Ciò tenuto conto dei trascorsi di Pierre  come marito di una ex attivista no global e quindi con buone conoscenze nella sinistra più radicale. Lo scrittore accetta ma ben presto si rende conto di essere entrato in un gioco molto pericoloso.

L'opera prima di Nicolas Pariser ha un inizio che suscita l'attenzione ma non tiene sulla lunga distanza trasformandosi da thriller politico-letterario in indagine sociologica.

Il prologo di questo film crea delle aspettative elevate. Siamo in Francia ai nostri giorni ma sembra di essere ai tempi della guerra fredda con un individuo (del quale non apprenderemo poi molto in seguito) a cui vengono tolte le manette per farlo espatriare nottetempo. A seguire abbiamo un gioco di gatto con il topo affidato alla vecchia volpe André Dussollier e all'ormai più che navigato (anche se di una generazione successiva) Melvil Poupaud che ricorda in parte quello che si instaurava tra Pierce Brosnan e Ewan McGregor in L'uomo nell'ombra di Roman Polanski.

L'uno è il corrotto e corruttore burattinaio capace di vanificare qualsiasi residuo elemento di speranza nella democrazia rappresentativa. Per lui tutto è manovra nell'ombra e gioco di rimbalzi scandalistici orchestrati con cura certosina. L'altro vive in povertà tipo bohème (con tanto di soffitta) e non ha ancora chiuso con gli ideali gauchisti di un tempo. Gli elementi per il raggiro e per il coinvolgimento in trame che debbono restare occulte non mancano.

Peccato però che, ad un certo punto, cedano il passo ad una sorta di auto reclusione dello scrittore in campagna con militanti di sinistra che, oltre che sembrare più noiosi che pericolosi per il Sistema, addormentano il film vanificandone le premesse. La responsabilità non è di Poupaud che fa del suo meglio (Dussollier sembra improvvisamente dissolto nel nulla) anche per reggere con Clémence Poésy un prodromo di storia amorosa ammantata più di distanze che di contatti ravvicinati. Ci si trova così dinanzi ad un film letteralmente diviso in due in cui la sceneggiatura, scritta ahimè da un troppo sicuro di sé Pariser, interviene sulle connessioni senza però conservare quell'unitarietà che sarebbe stata necessaria ed anche produttiva. Non si può iniziare un film come se fossimo in una spy story per poi tradurlo in un saggio su reduci del '68. O, meglio, si può ma poi l'esito non è dei migliori. 