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Il genere come genere

French Connection e il piacere di vedere un film uguale a tanti altri.
di Roy Menarini

In foto Jean Dujardin in una scena del film French Connection di Cedric Jimenez.
Jean Dujardin (51 anni) 19 giugno 1972, Parigi (Francia) - Gemelli. Interpreta Pierre Michel nel film di Cédric Jimenez French Connection.

sabato 28 marzo 2015 - Approfondimenti

Dopo aver visto French Connection di Cédric Jimenez molti di noi sono andati su Internet a scoprire i veri volti del giudice Pierre Michel e del gangster Tany Zampa, per controllare la corrispondenza con le facce, assai note, dei due divi francesi che li interpretano, Jean Dujardin e Gilles Lellouche. La somiglianza non è molta, a dire il vero, ma il fascino è decisamente accresciuto.
Il fatto che questa tradizionale lotta tra investigatore incorruttibile e padrino marcio fino al midollo sia tratta da una storia vera, potrà forse aggiungere elementi di riconoscibilità storica per gli spettatori francesi. Per noi, invece, è un classico esempio di "polar", formula-ombrello con cui definiamo tutta una serie di prodotti polizieschi francesi che oscillano tra noir, azione e thriller (il termine stesso è una crasi di due generi).
Si può serenamente affermare che in French Connection - titolo italiano attribuito da distributori cinefili che evidentemente esplicitano il rapporto di parentela con Il braccio violento della legge (nel film c'è una micro-citazione che scopriranno i fan di William Friedkin) - non c'è nulla che non sia ampiamente prevedibile. E al tempo stesso, non c'è nulla che sia davvero deludente.
French Connection, insomma, dimostra che ogni film - anche il più piccolo e laterale della distribuzione settimanale - ci parla della nostra relazione con gli oggetti estetici. Il genere cinematografico è sempre stato (e sempre sarà) la buccia di banana su cui scivolano i critici e su cui sono destinati a scontrarsi tra loro gli spettatori. Che cosa deve fare un film di genere per piacerci? Confermare al meglio i codici di riferimento o scartare i luoghi comuni e inventare qualcosa di originale? E se sceglie questa seconda strada, non finirà col tradire le aspettative e le consuetudini che vogliamo ritrovare in quel tipo di film?
Rischio che French Connection non corre, perché la sua dedizione al "polar", il suo affetto nei confronti del sotto-genere "marsigliese", la sua concretezza nel non voler perdersi in piccolezze o la testardaggine nell'evitare derive visionarie in stile De Palma o Coppola, si trasformano tutti quanti in pregi deliziosi.
Non si può che voler bene a un regista e un gruppo di attori così sereni e precisi nel fare un "film qualsiasi", un cinema di genere puro - non un grammo di più, non una sottrazione di meno, non una cialtroneria, non una metafora ardita che sia una - senza per questo rinunciare a ottenere un buon risultato. Persino le relazioni umane sono tutte quante brusche e rapide, e nella direzione degli attori (come richiede la natura secca e rigorosa del genere) si devono nascondere tra le pieghe le grandezze e miserie dei personaggi. E in questo caso, date per scontate le performance di due volti che parlano da soli come quelli degli attori protagonisti, vale la pena citare le mogli, la Céline Sallette cara a chi ha seguito la serie Tv di culto Les revenants e la magnifica Mélanie Doutey, già vista in quel Gli infedeli che - per quanto altalenante come riuscita - sembra oggi il contenitore di tutto il cinema francese che stiamo vedendo in questa stagione: Dujardin e Lellouche ne erano protagonisti e registi, un episodio era diretto da Hazanavicius (in sala con The Search) e un altro da Eric Lartigau, ora sugli schermi come autore di La famiglia Bélier. Quanto basta per assaggiare le molte sfumature di una cinematografia in salute.

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