|
Il regista Mario Martone, coadiuvato da un Elio Germano in splendida forma, restituisce un Leopardi più veritiero di come siamo stati abituati a conoscerlo. Ritroviamo il poeta privo di quell’immobile icona che per troppo tempo ha coperto la vera realtà dell’uomo e del poeta. In questo film delicato ed asciutto, è proprio il poeta che ci ricorda di essere prima di tutto un uomo, e con una rara sensibilità.
Il preambolo è situato nell’ormai nota siepe; Proprio l’ambientazione delle scene iniziali nella siepe ci fornisce una chiave di lettura del film, quello di riportare la creazione poetica alla loro realtà del tempo, far scorgere il momento ed il luogo preciso in cui scocca la scintilla del genio poetico. Si presenta, dunque, un Germano in un’intensa recitazione delle poesie, un soliloquio al di fuori della narrazione ritmica del film che regalano attimi di grande intensità. In questo cantuccio possiamo ritrovare la vera essenza del Leopardi, che diventa tutt’uno con la sua poesia. La prima parte del film indulge molto sulla vita di Giacomo nella casa paterna, austera e priva quasi del tutto degli affetti che tanto avrebbe voluto. Una madre anaffettiva ed un padre cieco ai reali bisogni del figlio rendono molto frustranti gli anni della giovinezza. La precaria salute comincia ad essere parte integrante della sua vita, ma sotto questo punto di vista essa rappresenta a volte uno sprone, a volte un polo dialettico che lo induce a superare se stesso. La biblioteca di casa, creata con tanto impegno e tanta cura dal padre Monaldo, dove Giacomo visse come un recluso, assurge qui a luogo simbolico della costrizione fisica e culturale, all’interno di una gabbia ancora più grande che è Recanati, tanto invisa al poeta. Se volessimo trovare delle incongruenze, potremmo notare una certa disparità tra le due parti. La prima, quasi tutta incentrata sulla gioventù del poeta, ambientata esclusivamente a Recanati, risulta molto scorrevole e narrativamente molto equilibrata, con una grande attenzione all’io interiore del poeta. La seconda, invece, un po’ troppo prolissa, leggermente disarticolata nelle diverse tappe della fuga leopardiana. Inoltre, sembra difficile da digerire quel 10 anni dopo in sovrimpressione che separa le due parti. La fuga (vana), cominciata già in tenera età e stroncata dal padre, rappresenta un leit-motiv all’interno della struttura del film, simboleggiando la voglia di forzare la gabbia delle costrizioni, siano esse fisiche innanzitutto, che politiche, culturali, sociali, affettive. Sembra che le mura delle carceri per Giacomo, siano concentriche. La biblioteca paterna, la gretta Recanati, poi Firenze, Roma e Napoli, nessun luogo gli è caro, sembra dirci il regista Martone. Sempre in fuga, prima con la complicità del fine Pietro Giordani, poi dell’inseparabile quanto dissoluto A. Ranieri, non riuscirà mai a ricongiungersi con l’umanità prima, nemmeno con la natura poi, lontana genitrice indifferente. A furia di esìli, traslochi forzati, sembra ripercorrere le gesta di picaresca memoria, se non fosse che niente riscatta l’animo del poeta, solo la poesia e l’ironia.
Proprio l’ironia è un altro grande tema narrativo del film, così caratterizzante il poeta quanto assente nella classica ricostruzione scolastica del Leopardi. Questa sua peculiarità parte proprio da se stesso, spesso dalle difficoltà fisiche che lo affliggono, per allargarsi ai circoli letterari, ai club politici, alla società tutta.
[+] lascia un commento a antonioderobbio »
[ - ] lascia un commento a antonioderobbio »
|