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La donna del ritratto

Figure femminili e cinema digitale in L'amore bugiardo.
di Roy Menarini

In foto Ben Affleck in una scena di L'amore bugiardo - Gone Girl.
Ben Affleck (Benjamin Geza Affleck) (51 anni) 15 agosto 1972, Berkeley (California - USA) - Leone. Interpreta Nick Dunne nel film di David Fincher L'amore bugiardo - Gone Girl.

domenica 21 dicembre 2014 - Approfondimenti

Era il 1981 quando Stanley Cavell, rigoroso docente di Harvard, stupiva la comunità accademica redigendo un volume straordinario e originale sulla commedia hollywoodiana. Il suo Alla ricerca della felicità - La commedia hollywoodiana del rimatrimonio analizzava alcune commedie degli anni Trenta e Quaranta dove la coppia protagonista, già formata a inizio film, incontra una serie di ostacoli e dissidi che la separa, per poi ritrovare lungo il racconto le ragioni e la consapevolezza (talvolta beffarda, grazie all'arte dell'allusione sviluppata contro il codice Hays) del proprio stare insieme. Non sempre gli happy end, a Hollywood, erano davvero felici, a saper leggere tra le righe. Ma la coppia trionfava comunque, per ragioni filosofiche e identitarie che Cavell spiegava da par suo. Quanto segue contiene spoiler.
Gone Girl è a suo modo una commedia del rimatrimonio. Non siamo i primi a notare le affinità con una concezione dark del cinema sentimentale, e c'è chi ha scomodato giustamente Billy Wilder. Ma dove la commedia americana dell'epoca giocava con la reticenza, Fincher semina assenza di senso. Mancanza di spiegazioni. Incomprensibilità delle motivazioni. E sebbene conceda la scena da protagonista a un marito mediocre, fallibile, egoista, traditore ma tutto sommato "a simple man", costruisce un ritratto psicopatologico di donna che non sarebbe dispiaciuto al penultimo Hitchcock, quello che va da La donna che visse due volte a Marnie. Citazionismi che, tuttavia, interessano poco al regista americano, sempre più lucido nel tratteggiare un'americanologia contemporanea di sicuro spessore, e che circonda il protagonista di tre donne altrettanto importanti. Amy, la moglie, occupa evidentemente lo spazio simbolico: una figura inaccessibile, una pazza vera e propria, ma non per questo meno vittima della violenza sociale statunitense - nel suo passato si celano genitori che hanno letteralmente scisso la sua immagine per farne un personaggio letterario e la confinano poi a un tabellone segnaletico congelando il suo ritratto nell'astrazione; cominciato il piano diabolico, viene derubata da nuovi amici pronti a trasformarsi in predatori; il suo precedente fidanzato è un miliardario ossessionato dal controllo e desideroso di rinchiuderla in una sorta di prigione iper-tecnologica travestita da castello.
Poi c'è la detective, cocciuta, tosta, mascolinizzata, vagamente cinica, con le antenne dritte ma anch'essa ingannabile dall'ambiente circostante che pure cerca di ignorare, parente stretta delle investigatrici depresse in stile The Killing. Infine la sorella, interpretata dalla bravissima Carrie Coon (di cui molti si sono innamorati vedendo la serie HBO The Leftovers), legata al fratello da un sentimento che qualche maligno dei media sospetta di morbosità, e in fondo davvero troppo cieca di fronte ai limiti umani e maschili del suo preferito. Sola, anche lei, come sola appare la detective. E sola, in fondo, anche Amy, costretta sempre a essere quello che non è, e di conseguenza folle e sproporzionata quando è pronta ad affermare se stessa, salvo poi rendersi conto che la protezione di un uomo, per una come lei, è sempre necessaria.
Il tutto viene srotolato da Fincher in un'America che non si sa decidere se più cinica o più disperata, e soprattutto dominata dai media. Non solo i media informativi, grotteschi e assetati come in Lo sciacallo, ma anche capaci di modellare la realtà: un selfie di troppo, un sorriso immortalato dal TG, una telecamera di sorveglianza che si rivolta contro chi l'ha collocata, uno smartphone senza campo, un cane robot, tutti oggetti e testi apparentemente neutri che si moltiplicano in prove e indizi. Cinema digitale, quello di Fincher, non solo perché realizzato con un cuore informatico e con telecamere ad alta definizione, ma anche perché mette in scena (The Social Network, Millennium) un mondo completamente mediatizzato, che sta mutando antropologicamente noi e il cinema stesso, chiamato a porre domande sul progresso tecnico e aprire interrogativi intorno alle conseguenze che ha sull'umano. E umanissime sono le emozioni di questi personaggi acefali, psicotici, confusi, contraddittori, violenti, autodistruttivi ("voi due siete davvero le persone più schizzate che abbia mai conosciuto" dice l'avvocato difensore parlando al marito della coppia), la cui gratificazione personale è una chimera. Alla ricerca della felicità, appunto.

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