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Guardare in faccia la fine

Miele, il cinema e il trapasso.
di Roy Menarini

Jasmine Trinca (43 anni) 24 aprile 1981, Roma (Italia) - Toro. Interpreta Irene nel film di Valeria Golino Miele.

domenica 5 maggio 2013 - Approfondimenti

Tra i tanti motivi per i quali Miele di Valeria Golino rappresenta una sorpresa nel panorama del cinema italiano, c'è sicuramente la sensibilità. Non è un caso che Marco Bellocchio, in Bella addormentata, pur scegliendo altre strade (talvolta grottesche, talora astratte), abbia sottratto allo sguardo degli spettatori il corpo e il volto di Eluana. A Bellocchio interessava narrare l'identità simbolica della nazione, aggrumata in maniera scomposta e spesso delirante da quel caso di cronaca clinica così doloroso. L'intento di Miele è altro, quasi il contrario. La protagonista - e noi con lei - vede e conosce i morituri, spiega loro le procedure per morire, rende tecnico il suicidio assistito e normativo (sebbene illegale) il modo per farlo. Ogni volta la sfida è più complessa: dai volti di anziani sofferenti si passa a quelli di un giovane prigioniero del proprio corpo e infine alla personalità forte e spiazzante di un uomo che non ha alcuna malattia, ma pretende di morire alle sue condizioni, facendosi assistere per quel tanto che basta.
La Golino, però, rispettando una nota legge etica della teoria del cinema, esclude di rappresentare il momento del trapasso, in quanto "osceno". Ora, si potrà anche sorridere di un imperativo morale autoimposto e - probabilmente - poco sostenibile da un punto di vista filosofico. Se però ce ne interessiamo da un punto di vista estetico, possiamo ben vedere come la rappresentazione della morte, dell'addormentamento per barbiturici e del conseguente abbandono della conoscenza e della vita, sarebbe apparso melodrammatico, sarebbe suonato falso e avrebbe costretto a una finzione scenica in contraddizione con i presupposti del film. Quali? La tensione corporea di Jasmine Trinca, costretta a mutamenti d'abito che la trascolorano fino a un grigiore androgino e indistinto; l'insopportabilità delle tecniche di suicidio, narrate come una procedura tra le altre ma sospese in pochi minuti tra il gesto più ripetuto e quello fatale, dal quale non si torna indietro; il dubbio sul limite del singolo di fronte alla fine della vita, e su quando chi assiste deve fermarsi.
Il personaggio interpretato da Carlo Cecchi, ispirato a Mario Monicelli e Lucio Magri, offre la lezione più importante, ambigua al punto giusto perché al pubblico non sia fornita una sola prospettiva ma venga lasciata ampia libertà di opinione. L'interesse di Miele sta proprio nel fatto che questa opinione non scaturisce tanto dagli avvenimenti e dal valore che ad essi attribuiamo, bensì dall'interpretazione sociale e collettiva di quel che abbiamo visto. I comportamenti dei personaggi, in buona sostanza, ci interrogano su che cosa sia lecito fare o non fare, e che tipo di conseguenze abbiano certe scelte di fronte a coloro che ci circondano. In fondo, pur nella sua drammatica complessità, il tema è tutto qui: se sia più importante la libertà del singolo di fronte alla morte, o se le sue scelte siano da proiettare in un più ampio contesto di relazioni umane e sociali (compresa l'idea che uno Stato rischi di contraddire se stesso nel momento in cui autorizza l'eutanasia di un proprio cittadino).
Si tratta, come si può ben vedere, di argomenti a dir poco sensibili, che la Golino ha il merito di rendere urticanti, persino sgradevoli, per non sottrarsi al problema di come possano morire i sofferenti, e senza dimenticare la riflessione su quali forme cinematografiche dare a tale, improbo compito.

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