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Dopo l’esordio intimista e autobiografico di J'ai tué ma mere ed il travolgente, visionario, poetico Laurence Anyways, cambio di genere e di passo per Dolan, che nella duplice veste di attore e regista, in Tom a la ferme mette in scena, apparentemente in forma di thriller psicologico, una piece teatrale di Michel Bouchard. Il ritmo è più lento rispetto ai precedenti lavori, la cupezza dei paesaggi e la quasi totale assenza di luce degli interni ripresi in ombra riflette lo stato d’animo dei personaggi. Lo spettacolo dei sentimenti sembra messo in secondo piano dalla suspense morbosa, dall’atmosfera cupa e surreale che avvolge e sostiene il confronto drammatico tra i personaggi.
Dolan mediante la contrapposizione di attrazione sadomaso e ricordo luttuoso, trasforma il binomio classico del romanticismo, amore e morte, evocando la sindrome di Stoccolma, in un rapporto vittima carnefice intriso di erotismo e di violenza. Il dualismo amore e morte si riflette, come in un gioco di specchi, nella psiche di ognuno dei due protagonisti, ed è rispettivamente rappresentato, nell’uno, dall’omofobia che uccide la propria omosessualità repressa contrapposta all’amore che la libera dichiarandosi apertamente nel finale, e nell’altro, dal desiderio di annullamento di sé che aspira a condividere la sorte dell’amato in contrasto con l’impulso vitale a sopravvivere sostituendolo con un surrogato in cui far rivivere, sebbene nella sua versione infernale, in un golem, l’amante perduto.
La scena d’apertura del film, la corsa in auto ripresa da un drone sulla striscia d’asfalto nell’apertura di spazi sconfinati in mezzo alla campagna, accompagnata da una canzone di Legrand cantata a cappella da una bellissima voce femminile, danno insieme la sensazione di libertà e di disperazione. E’ la solitudine del dolore vissuto in piena luce, la libertà nell’angoscia che prelude alla dolente cattività nella penombra. È un viaggio verso gli inferi, nei luoghi di infanzia dell’amante perduto, un percorso a ritroso nel tempo tra i diari custodi del segreto adolescenziale, mantenuto tra fratelli perché la madre non può sapere, perché non può capire, ancora illusa che il figlio in città avesse una fidanzata e non il ragazzo che siede di fronte a lei in veste di un suo amico e collega. In quella casa, nello spazio angusto di una piccola cucina, la sofferenza condivisa nella finzione diventa scontro, occasione di riscatto e al contempo di espiazione, di morte e di rinascita.
Nell’ultimo fotogramma la svolta. L’altro visto di spalle mentre appoggia i piedi scalzi su un sofà si volta a guardare. Il finale è lasciato all’immaginazione dello spettatore. Anche se sappiamo come andrà a finire. L’esaltazione romantica delle passioni non può che concludersi nella deflagrazione annunciata degli opposti. La forza vitalistica dell’amore e le vertigini del cupio dissolvi spingeranno, credo, il protagonista a tornare sui suoi passi.
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