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Natura morta con personaggi

Il senso della vita in Still Life.
di Roy Menarini

In foto Eddie Marsan in una scena del film Still Life di Uberto Pasolini.
Eddie Marsan Altri nomi: (Edward Marsan ) (55 anni) 9 giugno 1968, Londra (Gran Bretagna) - Gemelli. Interpreta John May nel film di Uberto Pasolini Still Life.

domenica 15 dicembre 2013 - Approfondimenti

I film di Natale, storicamente, puntano alle emozioni più profonde. La risata, per esempio, sinonimo di evasione e allontanamento dalle preoccupazioni quotidiane, si conferma tradizione nazionale (ben tre quest'anno le pellicole chiamate a sollecitare la comicità, ovvero i film di Brizzi, Parenti e Pieraccioni). Poi la gamma del sentimento e dell'avventura garantito dai film d'avventura e per famiglie, quelli di animazione e I sogni segreti di Walter Mitty. E infine la commozione, magari un po' truccata da film d'essai (perché agli spettatori più seriosi va sempre data una giustificazione nobile per piangere), che alberga in Philomena - da questo punto di vista il più astuto - e Still Life, più piccolo e meritevole d'affetto, vincitore del Premio Orizzonti per la regia, all'ultima Mostra del Cinema di Venezia (anche grazie a un presidente di giuria apparentemente lontano dal gusto di Uberto Pasolini, ovvero l'inquieto Paul Schrader).
Che cosa, di Still Life, piace? Lo spiega perfettamente Marzia Gandolfi proprio sulle pagine di MYmovies.it, quando scrive (citiamo interamente): "Un film rigoroso, coerente, denso, profondo nell'immagine e nel senso, che ha la precisione e la lentezza di Tsai Ming-liang e la fissità e la dimensione iconica di Ozu. Non sembrino esagerati i riferimenti perché Still Life è un'opera importante che respira cinema dall'inizio alla fine". Non c'è molto da aggiungere.
Rimane invece da ragionare sul tema che serpeggia nel film, che - è vero - rappresenta un canto di vita mescolato alla morte, e una delicata riflessione sulla solitudine, ma in fondo ci parla anche dell'atto creativo. John May, il protagonista, per quanto anonimo e grigio, è guidato da una curiosità artistica. Cerca di ricomporre le storie dei morti, e con loro la "backstory" di personaggi che se ne sono andati da soli, letteralmente lontano dai riflettori. Nel ricostruire queste esistenze, May cuce narrazioni, intreccia gradi di separazione che magari in vita erano stati assai labili, e soprattutto costringe le persone a ripensare al proprio rapporto col defunto. Un atto quasi divino, anche se paradossalmente giocato post mortem, in un rapporto con la fine che viene continuamente ravvivato dal potere del racconto.
È curioso il confronto proprio con Philomena, dove si svolge una quest, una ricerca, simile. Nell'epoca dei biopic e delle agiografie, il cinema si occupa ancora di cercare un senso alla vita, e di mettere in scena la morte come lutto dell'immagine: in entrambi i film, il desiderio di evocare la memoria del defunto non sfocia mai in una sua rappresentazione diretta, come a dire che - anche se dispone di un'arma che nella vita vera non abbiamo, il flash-back (o di un viaggio nel tempo, come nel bellissimo, sottovalutato Questione di tempo) - il cinema può anch'esso scegliere di rispettare le soglie dell'esistenza, lasciando andare l'immagine di chi non c'è più per dedicarsi al suo ricordo, unica soluzione praticabile per custodirne l'affetto e farne conoscere le qualità, che potranno albergare in ciascuno, sparse come ceneri, per il resto della vita.

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